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Ambiente, società e tecnologia

Un’introduzione al mondo delle biotecnologie industriali: intervista a Stefano Bertacchi

“La divulgazione nel campo delle biotecnologie sta acquisendo una risonanza sempre maggiore, soprattutto per quanto riguarda le sue applicazioni nell’ambito medico. Oltre a queste c’è però un mondo vasto e diversificato, forse meno conosciuto, ma altrettanto ricco di risvolti interessanti e coinvolgenti. Una parte di esso è rappresentata dalle biotecnologie industriali: abbiamo chiesto a Stefano Bertacchi, biotecnologo industriale, Dottore di ricerca presso il dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze dell’Università di Milano-Bicocca e divulgatore scientifico, di rispondere ad alcune domande e curiosità su questa branca scientifica.”

 

 

Per iniziare, che cosa sono e di cosa si occupano le biotecnologie e, nello specifico, le biotecnologie industriali?

 

“Le biotecnologie si occupano dello sviluppo di processi basati sull’impiego di esseri viventi o parti di essi, come gli enzimi. Nello specifico, le biotecnologie industriali (o bianche) hanno lo scopo di produrre molecole di interesse merceologico, dai biocarburanti alle bioplastiche, passando per farmaci e additivi alimentari.”

 

 

Le biotecnologie tradizionali vengono sfruttate dall’essere umano da moltissimo tempo: le biotecnologie industriali, invece, sono un campo scientifico di recente sviluppo?

 

“Spesso le persone restano sorprese dal sapere che le biotecnologie nascono molto tempo fa, con lo sviluppo dei processi per fare la birra, il pane e lo yogurt, per fare alcuni esempi accumunati dall’uso di microrganismi. Potremmo considerare questi esempi parte delle biotecnologie industriali, ma se ci limitiamo al coinvolgimento della microbiologia, quest’ultima è una scienza molto nuova rispetto alla zoologia e alla botanica. A questo dobbiamo sommare l’accumulo di conoscenze in altri settori scientifici, biologia e chimica su tutti, che ci hanno permesso di diventare dei biotecnologi più consapevoli di quello che accade.”

 

 

Le biotecnologie riguardano la nostra vita quotidiana? Quanto ne siamo effettivamente consapevoli?

 

“Assolutamente sì: il cibo è uno degli esempi principali, ma anche molti farmaci, come l’insulina, o i vaccini ricombinanti, a base virale o meno, sono frutto delle biotecnologie. La percezione da parte del grande pubblico è ancora parziale, per questo motivo affianco la mia attività di ricerca scientifica a quella di divulgazione, in modo da far capire che anche i detersivi che utilizziamo hanno a che fare con le biotecnologie.”

 

 

Quanto è conosciuto questo ambito e quanto attira interesse, soprattutto da parte di chi non si occupa di scienza?

 

“Sicuramente c’è interesse in questo ambito, soprattutto quando sentiamo parlare di OGM, staminali, terapia genetica eccetera. La pandemia ha anche reso più “famosi” alcuni aspetti prima poco noti, come l’uso di tecniche molecolari come la PCR e lo sviluppo di vaccini ricombinanti a base di virus OGM.”

 

 

Quali sono, al giorno d’oggi, gli ambiti più innovativi e interessanti della ricerca e quale potrebbe essere il loro futuro? A quali sfide cercano di rispondere?

 

“Aspetti molto innovativi riguardano, dal punto di vista tecnico, l’implementazione della biologia sintetica e dell’editing genetico, coinvolgendo non solo microrganismi. Lo sviluppo di bioprocessi basati su biomasse rinnovabili come alternativa al petrolio potrebbe rispondere alle crescenti pressioni per una maggiore sostenibilità.

 

L’emergenza climatica e l’inquinamento sono temi centrali. Come dicevo in precedenza c’è la spinta per lo sviluppo di processi innovativi basati su materie prime di scarto, o che possano sfruttare la CO2 in atmosfera. Allo stesso tempo possiamo anche sviluppare cellule capaci di degradare sostanze inquinanti, come la plastica e la gomma.”

 

 

L’Italia valorizza abbastanza la ricerca in questo ambito, oppure c’è un clima di diffidenza?

 

“Alla luce delle nuove politiche, si spera, sempre più green da parte dell’Italia e dell’Unione Europea, non possiamo che valorizzare la ricerca in questo settore. La diffidenza c’è sempre in relazione alla ricerca, che spesso non viene compresa come qualcosa che necessita tempo per mostrare i propri frutti. In aggiunta, le biotecnologie non godono di una grande fama in Italia a causa del forte pregiudizio nei confronti degli OGM, che tuttavia si sta pian piano assottigliando di fronte a nuove metodiche come l’editing genetico, che dimostrano come di fatto è nella natura umana manipolare il DNA delle piante e animali intorno a noi.”

 

Dalle parole di Stefano Bertacchi emergono le potenzialità che ha la ricerca scientifica in questo campo, così come la necessità che la divulgazione e il dibattito informato su di esso siano sempre più diffusi.

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Economia, StartUp e Fintech

Intervista a Federico Masi, co-fondatore della start up FinTech FLOWPAY

Il pagamento delle fatture in ritardo è un’abitudine molto diffusa a livello nazionale e non solo. I pagamenti in ritardo si trasformano in costi che non riguardano solo le imprese ma si trasferiscono al settore bancario per via dei rapporti che ci sono tra imprese e banche. Flowpay è una start up che nasce con l’obiettivo di porre rimedio a questo problema automatizzando il pagamento delle fatture elettroniche con l’uso dell’open banking, facilitando il rapporto tra le controparti.

 

Come è nata Flowpay?

 

Flowpay nasce a ottobre 2019 dall’incontro tra me, che venivo dal mondo start up e conoscevo molto bene l’integrazione bancaria e i pagamenti, Edoardo Tommasi, Lorenzo Rossi e Tiziano Pacciani di Banco Digitale che si occupavano di soluzioni blockchain e DLT. Ci siamo trovati a una fiera di matching business to business organizzata da Banca Intesa. Io avevo la necessità di creare un metodo di riscossione che rendesse più certi gli incassi di fatture B2B.

 

Questa necessità è sorta in seguito a una tua esperienza diretta?

 

Sì ed oltre alla mia esperienza studiando il mercato di riferimento ho potuto apprendere che, attualmente, il 40% delle fatture che sono in pagamento scadono senza essere pagate. In Italia il problema è particolarmente rilevante perché da una parte è quasi normalizzato il pagamento delle fatture in ritardo e la presenza di molte PMI si traduce in un fabbisogno di liquidità più urgente dal momento che le piccole imprese hanno meno capacità a finanziarsi; tutto ciò crea un problema notevole per l’economia. Inizialmente l’idea che abbiamo avuto era creare una fattura programmabile come se fosse uno smart contract, ed è da qui che nasce Flowpay che successivamente si evolve in un istituto di pagamento. Siamo la prima start up ad essere autorizzata dalla Banca d’Italia a operare come PISP e AISP, l’autorizzazione è giunta a febbraio.

 

Cosa sono queste due tecnologie?

 

La normativa sui pagamenti europei ha introdotto una nuova organizzazione chiamata TPP, third party providers. Alla base c’è un soggetto che si interpone tra banche, o altri operatori finanziari tradizionali, e l’utente, che è autorizzato ad effettuare alcune operazioni attraverso la tecnologia o l’interfaccia offerta dalla terza parte, ossia permettere di mediare le operazioni di informazione (visualizzazione degli estratti conto o di pagamenti) da un utente ad un certo numero di banche, accorciando così la distanza finanziaria tra utente e banca. Le banche, a loro volta, sono obbligate ad esporre questi servizi via API, permettendo in questo modo a terze parti come Flowpay di poter visualizzare tutti i conti di un cliente operando per conto suo, rendendo più comoda la gestione di diversi conti e i pagamenti. Dato che il problema su cui ci siamo concentrati è l’incasso delle fatture, Flowpay utilizza un sistema, il primo di questo tipo, di request-to-pay open banking; dunque, un’azienda che deve ricevere un pagamento può condividere un link con la fattura che deve essere pagata dal cliente che a sua volta può procedere al pagamento con approvazione tramite OTP (One time password). Il pagamento può essere istantaneo, oppure creato oggi per domani con bonifico ordinario, o ancora ordinato oggi per un pagamento a 30 giorni. La nostra value proposition è questa; il consenso al pagamento viene inizializzato oggi dal cliente che deve pagare il fornitore anche se il pagamento effettivo è differito (a 30 o 60 giorni), Flowpay fa da fluidificante della relazione commerciale.

 

Così il recupero crediti è più agile?

 

Flowpay mitiga il rischio di dover dedicare tempo eccessivo al recupero crediti. Chi si occupa di recupero crediti può integrare la nostra API per avere un sistema di informazione maggiore perché l’azienda che implementa il nostro sistema può inviare un link al cliente e chiedere di essere pagata attraverso questo link in uno step, senza dover perdere tempo nel recuperare l’informazione della fattura, il destinatario del pagamento, l’IBAN.

 

Come è accessibile il servizio?

 

Il servizio è offerto tramite una piattaforma integrabile via API quindi è rivolta a molti soggetti come chi si occupa di commercio B2B, chi si occupa di Invoice Trading, finanza alternativa come factoring/reverse factoring o instant lending, chi si occupa di recupero crediti, ma offriamo anche una interfaccia utente per le piccole e micro realtà. Per questo abbiamo integrato i gestionali o i provider di fatturazione elettronica come fattura in cloud, Aruba e MyFoglio.

 

Quali sono i costi?

 

L’iscrizione a Flowpay è gratuita. I pagamenti sono anch’essi gratuiti mentre sugli incassi richiediamo lo 0,03%. La concorrenza, non Open Banking, ha prezzi molto più alti se pensiamo alle commissioni applicate da Stripe, PayPal.

 

Avete pensato a soluzioni per i crediti delle imprese verso la Pubblica Amministrazione?

 

La PA non paga con bonifico ma con mandato, ricorrendo ad una procedura autorizzativa per cui il dirigente preposto alla tesoreria all’interno di un ente pubblico dà mandato alla banca tesoriera di pagare. Allo stato attuale la nostra soluzione non è applicabile. Ho parlato con un hedge fund che ha svolto diverse operazioni su crediti scaduti o crediti in bonis di lungo termine e per loro il fatto che la PA paghi molto in ritardo non è altro che un vantaggio, perché riescono a raccogliere una massa di crediti dello Stato che sono sicuramente esigibili, anche se molto in ritardo, ma ciò crea una situazione molto sfavorevole per le imprese. Stiamo parlando con soggetti istituzionali per trovare una soluzione per le fatture verso la PA.

Ho letto che offrite anche un servizio di credit scoring?

Lo implementeremo in futuro, abbiamo ancora bisogno di dati per istruire con Machine Learning il nostro motore di credit scoring. In futuro, avendo indicazione di ogni soggetto circa le sue attività commerciali, attive e passive, noi riusciremo a mappare e dedurre quali saranno i comportamenti di pagamento dei vari soggetti che appartengono alla rete del nostro utente. L’obiettivo è offrire un payment scoring delle aziende per consigliare ai nostri utenti quali rapporti sono più profittevoli, fino ad arrivare a predire quando conviene ai nostri utenti chiedere l’incasso in base al comportamento passato del cliente/fornitore. Questo permetterà di pianificare e prendere migliori decisioni di allocazione finanziaria di breve termine.

 

Quale tecnologia utilizza Flowpay?

 

Flowpay nasce come una rete distribuita, ossia con la possibilità di installare nodi di dati all’interno di un certo numero di istituti finanziari, e non per creare una rete interbancaria, perché i clienti, di fatto, rimangono clienti diretti delle banche, per poi condividere questo patrimonio informativo con tutte le banche che avessero aderito e dare quindi credibilità e autorevolezza alla rete Flowpay. Questo primo passo con le banche non è andato come sperato perché le banche temono che possiamo sottrarre loro clienti, timore non fondato perché ci appoggiamo alle banche per il nostro lavoro, non ci occuperemo mai di raccolta del risparmio ma anzi la nostra collaborazione può portare ai nostri partner risultati più proficui e nuovi clienti che sono alla ricerca di servizi più efficienti. Si iniziano però a vedere alcuni passi positivi verso la nascita di alcune partnership.

 

Che tipo di difficoltà avete riscontrato dalla vostra nascita ad oggi? Avete ricevuto supporto dallo Stato se è stato richiesto?

 

Per adesso non abbiamo ricevuto aiuti dallo Stato ad eccezione del supporto avuto da Banca D’Italia che ha compreso molto bene e ci ha aiutato a creare un Unicum nel panorama FinTech italiano. Diciamo piuttosto che abbiamo scontato, e stiamo scontando, il prezzo di aver creato la nostra iniziativa in Italia, che nonostante diversi proclami mi sentirei di dire che non è il posto giusto per aprire una startup. Per diversi motivi:

 

  1. Il livello di richieste, soprattutto di Compliance Normativa, in Italia è forse il più alto di Europa ed in un contesto di Single Europe Payment Area (SEPA) vede le aziende italiane soccombere, per questioni di adeguamenti normativi, alla competizione con operatori esteri che possono operare in tutta Europa, compresa l’Italia, con un quadro normativo più lasso;
  2. Non esistono strumenti di capitale (equity o debito agevolato) adeguati a realtà come la nostra che devono competere da subito almeno su base europea. I fondi di Venture Capital con cui abbiamo parlato sono in gran parte esteri e tutti hanno storto la bocca quando hanno compreso che eravamo italiani e chiesto anche esplicitamente di rivedere la localizzazione della società su altri territori;
  3. Gli incumbent (banche e altri attori istituzionali) invece di aprirsi all’Open Innovation sono restii alla collaborazione anche perché non esistono meccanismi di incentivo all’innovazione.

Speriamo che questo secondo tentativo di finanziamento a Invitalia possa dare esito positivo, così da poter dire che lo Stato ci ha aiutato.

 

Un consiglio per i giovani ragazzi che vorrebbero avviare una loro attività?

 

  1. Mio malgrado: non fatelo in Italia;
  2. Studiate bene il mercato prima di fare qualsiasi cosa, studiate la competizione e trovate qualche “sponsor” o “Early adopter” prima di partire a fare;
  3. Chiunque sia disposto a finanziare una start up non ha né voglia né tempo di comprendere nei dettagli il tuo business, deve vedere che tu lo sai fare, quindi contratti e fatturato.
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Ambiente, società e tecnologia

L’agricoltura diventerà verticale? Limiti e vantaggi del vertical farming

Secondo le statistiche riportate da Our World in Data, ad oggi circa il 57% della popolazione mondiale vive in aree urbane.  Questo dato è destinato a crescere: nel 2050 infatti il 68% degli abitanti del pianeta Terra vivrà nelle città, seppur con notevoli distinzioni tra paesi diversi. Senza contare che, entro lo stesso anno, saremo oltre 9 miliardi: l’attuale sistema di coltivazione industriale dovrà diventare al contempo più efficiente nel rispondere a esigenze crescenti e più sostenibile. E se una delle strade possibili per l’agricoltura fosse conquistare la terza dimensione? Non si parla di fantascienza ma di vertical farming, ovvero coltivazioni basate su “serre verticali”. A Cavenago, in provincia di Milano, è in corso la realizzazione di un progetto di PlanetFarms per la costruzione di uno stabilimento che dovrebbe ospitare serra di oltre 9000 metri quadrati. Questo progetto, come molti altri, si basa su un modello tecnologico e produttivo in cui gli ortaggi vengono coltivati non sul piano di un singolo campo, ma su molteplici livelli: un concetto molto ampio che presenta però alcuni punti critici.

Che cosa sono le serre verticali?

Sebbene il modello possa essere declinato e adattato in molti modi, notiamo alcuni comuni denominatori che permettono di distinguerlo: ritroviamo infatti quasi sempre, secondo la stessa definizione data da Vertical Farm Italia, “un ambiente chiuso, completamente controllato, indipendente da quello esterno per tutti i parametri ambientali (come umidità, luce, ossigenazione e temperatura)”, a cui si aggiunge la necessità che l’ambiente scelto sia abbastanza grande da poter ospitare una produzione su larga scala.

Tra le tecniche più diffuse ci sono l’idroponica e l’aeroponica: entrambe hanno come obiettivi principali l’utilizzo e la distribuzione intelligente delle sostanze nutritive destinate alle piante. Se nell’idroponica le piante affondano le proprie radici non più nel terreno, ma direttamente in acqua, nell’aeroponica vengono lasciate a contatto con l’aria, sospese e periodicamente spruzzate con una soluzione di acqua e nutrienti. Questi obiettivi sono importanti alla luce delle previsioni sulla diminuzione della terra coltivabile pro capite a livello globale: secondo FAO, nel 2050 sarà ridotta a un terzo rispetto al 1970.

I vantaggi dell’agricoltura in verticale

Secondo Vertical Farm Italia, le serre verticali raggiungono un risparmio d’acqua del 90% e, secondo i dati riportati da eitFood, permetterebbero di coltivare, grazie ai piani posizionati uno sopra l’altro lungo scaffali, torri o pareti, molte più piante rispetto all’agricoltura in campo aperto; nel caso della lattuga ci sarebbe una resa per metro cubo di circa 20 volte superiore. In un mondo che si muove verso una più pervasiva urbanizzazione, coltivare su più livelli in edifici, grattacieli o capannoni all’interno delle stesse città potrebbe essere una risorsa per accorciare la distanza che separa il luogo in cui viene effettivamente coltivato un prodotto e i consumatori finali che vivranno nelle aree urbane: il risultato sperato è una filiera che si avvicini all’obiettivo “chilometro 0”.

Un modello perfetto? Assolutamente no: i difetti del vertical farming

Non dobbiamo però farci trarre in inganno dal desiderio di pensare che un possibile strategia per fronteggiare la crisi ambientale sia la soluzione definitiva. In campo agricolo, questo è un modello imperfetto sotto punti di vista molto rilevanti. È infatti costoso per i produttori (e di conseguenza per i consumatori); può funzionare a livello economico per una varietà limitata di specie vegetali, come piccoli ortaggi a foglia verde, erbe aromatiche e bacche da frutto, ma attualmente non per cereali e legumi, alimenti fondamentali nella nostra dieta. Soprattutto, richiede molta energia.

Serre costruite su più livelli sovrapposti infatti raramente possono dipendere dalla luce solare. La tecnologia più diffusa per garantire l’illuminazione costante si basa sui LED, che per quanto siano stati migliorati negli ultimi anni, non possono far sì che la maggior parte dell’energia luminosa da essi erogata venga utilizzata efficacemente dalle piante per la fotosintesi. Questo svantaggio, sommato alla necessità di rendere automatizzati molti dei processi e di mantenere costanti i parametri vitali per le piante in modo artificiale, fa sì che mediamente il costo energetico per un chilogrammo di prodotto superi di 30-176 chilowattora quello per la stessa quantità coltivata in una serra tradizionale. Il problema energetico diventa ancora più grande se le fonti da cui la serra dipende sono fossili e quindi non rinnovabili.

Le serre verticali nel mondo

Sebbene il termine “vertical farming” sia stato coniato nel 1915 dal geologo Gilbert Ellis Bailey, bisogna tornare nel 2012 a Singapore per trovare la prima vera e propria serra verticale già competitiva sul mercato: SkyGreens, che ha cercato di risolvere il problema dell’illuminazione attraverso un sistema di rotazione dei suoi 38 piani che funziona grazie all’energia idraulica: ogni pianta può ricevere la luce solare, anche se non in modo costante. Un’altra azienda, AeroFarms, tra le più grandi attualmente, è stata lanciata nel 2004. Incentrata sulla ricerca nel campo dell’aeroponica, ad oggi possiede serre nel New Jersey, ad Abu Dhabi e a Danville, in Virginia.

Se da una parte le serre verticali sembrano un mercato in crescita e possono rispondere ad alcuni problemi ambientali, come lo spreco di acqua e di suolo, dall’altra ne creano di nuovi e non sono ad oggi potenzialmente capaci di rimpiazzare i metodi più tradizionali: saranno quindi i risultati futuri della ricerca e l’effettiva applicazione di questo sistema a decidere se il vertical farming sia una buona strada possibile per innovare l’agricoltura e se i suoi benefici riescano a compensare i suoi costi.

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Ambiente, società e tecnologia

Le città del futuro tra smart city e borghi

L’ultimo anno ci ha costretto a ripensare alle nostre abitudini, al modo di vivere la vita quotidiana e il nostro lavoro. La pandemia ci ha tolto spazi in cui incontrarci e svagarci, ma ci ha dato un nuovo luogo dove vivere: la nostra casa e il nostro quartiere. Il lavoro da remoto ha svuotato le grandi città portando a un calo dei consumi, ma anche al calo del traffico e dell’inquinamento. A Milano nel mese di settembre (periodo in cui rispetto alla pandemia abbiamo vissuto una quasi-normalità) le prenotazioni nei ristoranti sono calate del 25% rispetto all’anno precedente, il trasporto privato si è ridotto del 15% e il trasporto pubblico del 50% (fonte: Il Sole 24 Ore). Ora, con la campagna vaccinale che procede ci si chiede come sarà la nostra vita quando la pandemia sarà finita. In particolare, come sarà la vita nelle grandi città? Sono destinate a sparire in favore di una vita nei borghi?

Un futuro tra il fisico e il digitale

Carlo Ratti, architetto e docente di Urban Technologies al MIT di Boston, durante l’intervista per l’anteprima dell’evento FORUM PA 2021 che si svolgerà a giugno, afferma che secondo lui “la forza magnetica che ci porta nelle città tornerà come prima, se non più di prima, alla fine della pandemia”. Ratti ritiene che il futuro delle città sarà ibrido, tra il fisico e il digitale, sia per la socializzazione che per il lavoro. Ci sarà grande flessibilità e soprattutto le città di medie dimensioni, ma ben collegate ad altre, avranno una nuova opportunità: le persone potranno vivere e lavorare da casa per la maggior parte del tempo in queste città e andare nella sede centrale nella città più grande solo alcuni giorni a settimana. L’attenzione deve essere posta proprio in questa direzione, verso quelle tecnologie che permettono di lavorare in modalità digitale e fisica.

Stefano Boeri, architetto e urbanista, come riportato nell’intervista pubblicata da Repubblica, ritiene che la fuga dalle grandi metropoli non sarà irreversibile ma ci saranno aspetti che saranno reversibili e altri, quelli che hanno migliorato la vita delle persone, che non torneranno come prima. Come Ratti, Boeri parla di un modo di vivere lavorare ibrido, per la maggior parte del tempo in un borgo e solo qualche giorno in città. Tornare a vivere nei borghi, per lui, non vuol dire porre fine alle città ma anzi significa continuare a farle vivere: “città che diventano arcipelaghi di borghi e borghi storici che tornano a essere piccole città”. Per riportare in vita i borghi sono necessarie tre condizioni. La prima riguarda la connessione digitale, cioè la banda larga. La seconda è l’accessibilità: infatti affinché il modello ibrido funzioni è importante che i borghi non siano troppo distanti da una città che abbia tutti i servizi che invece un piccolo paese non può avere, come l’ospedale specializzato, l’università e luoghi di cultura. La terza condizione, invece, è urbanistica. Occorre, infatti, riadattare gli spazi alle esigenze della società moderna, senza danneggiare il patrimonio naturale in cui i borghi si trovano.

Qualunque sia la direzione che prenderemo, è chiaro che la tecnologia avrà un ruolo fondamentale. Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione: la tecnologia è entrata in ogni ambito della nostra vita e in molti luoghi delle nostre città, dalle nostre case alle nostre strade. Le ultime innovazioni tecnologiche sono partite dalle grandi città e stanno raggiungendo anche quelle più piccole. Per definire la nuova città più tecnologica si sceglie di utilizzare il termine smart city (o città intelligente). Il termine viene utilizzato per la prima volta negli Stati Uniti per indicare il punto di vista di una città ideale legata alla automazione. Ma cosa sono le smart city oggi? Quali tecnologie utilizzano e in quali dimensioni della vita cittadina?

Smart city: cosa sono e quali tecnologie

L’Unione Europea definisce una città intelligente come un luogo in cui la rete e i servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso delle tecnologie digitali e delle telecomunicazioni a beneficio dei suoi abitanti e delle imprese. Non si limita all’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, dall’inglese Information and Communications Technology) per un migliore impiego delle risorse e una riduzione delle emissioni ma riguarda la città nella sua totalità. In una smart city le reti del trasporto urbano sono sostenibili e tecnologiche e l’approvvigionamento idrico ed energetico è potenziato ed efficiente.

Smart city significa anche avere un’amministrazione cittadina più interattiva e reattiva per migliorare la qualità dei servizi, spazi pubblici più sicuri ed essere in grado di soddisfare le esigenze di tutta la popolazione venendo incontro alle sue necessità. Tutti questi aspetti sono inclusi in sei grandi dimensioni di azione interconnesse che coinvolgono persone, governo, economia, stile di vita, mobilità e ambiente. La città è al servizio del cittadino e il suo obiettivo finale è migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti.

Le principali tecnologie che consentiranno di rendere smart le città sono la tecnologia 5G e la tecnologia Internet of Things (o in italiano Internet delle Cose). Il 5G permette di garantire elevate prestazioni e servizi grazie alla sua maggiore velocità di trasmissione dei dati, alla bassa latenza e alla capacità di gestire un numero elevato di dispositivi. È il mezzo che permetterà alla città la connettività degli “oggetti connessi”, cioè dell’Internet of Things (IoT). Infatti, gli ambiti applicativi dell’IoT sono molti: dal trasporto urbano all’agricoltura ma anche all’interno delle nostre case per migliorarne la sicurezza, la comodità e ridurne i consumi. In questa ottica è fondamentale lo sviluppo di sensori e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per ricavare e rielaborare il grande numero di dati necessari per la gestione dei servizi della città intelligente.

Digitalizzazione e pandemia

La pandemia e il lockdown hanno dato una forte accelerazione al processo di digitalizzazione del Paese, modificando i comportamenti delle persone e permettendo di vivere le proprie abitudini anche se in modo differente. Secondo uno studio condotto da Deloitte, infatti, 26 milioni di italiani hanno dichiarato di essere riusciti a svolgere le proprie attività regolarmente durante il lockdown grazie all’innovazione tecnologica. Ma non sono mancate le difficoltà. 1 italiano su 2 riporta complicazioni nell’accedere ai servizi scolastici erogati da remoto e un limitato accesso a una connessione veloce. Inoltre, il 36% degli italiani ritiene che il processo di digitalizzazione non consideri sufficientemente l’aspetto umano. Secondo Deloitte, i risultati della ricerca evidenziano la necessità di cambiare il modo di vedere l’innovazione per rispondere meglio alle esigenze delle persone: occorre applicare un nuovo modello di innovazione antropocentrica che metta al centro l’uomo e i suoi bisogni. Anche in questo caso si parla di un’innovazione bilanciata, tra la dimensione digitale e quella fisica.

Smarter Italy: il progetto

Per rendere l’innovazione tecnologica accessibile e in grado di soddisfare tutti i bisogni dei cittadini è necessaria una digitalizzazione diffusa e occorre rendere il Paese sempre più smart in tutte le dimensioni della vita cittadina. In questa ottica nell’aprile 2020 ha preso l’avvio il progetto Smarter Italy.  Smarter Italy nasce con il Decreto del MISE del 31 gennaio 2019 e diventa operativo con l’appoggio dell’Agenzia per l’Italia digitale, del MUR e del Ministero per l’Innovazione tecnologia e la digitalizzazione. Vede protagonisti 11 centri urbani, le cosiddette “Smart Cities” e 12 piccoli comuni (al di sotto 60.000 abitanti), che costituiscono i “Borghi del futuro”, per realizzare servizi innovativi nei settori di mobilità, salvaguardia dell’ambiente, beni culturali e benessere delle persone. I comuni scelti diventeranno laboratori di appalti innovativi per imprese, centri di ricerca e startup che saranno invitati a cercare nuove soluzioni per rinnovare i settori.

È chiaro quindi che non è più sufficiente che solo le grandi città siano il luogo di tutte le innovazioni ma è importante che queste vengano pensate e adattate anche alle necessità dei piccoli comuni. Quello che succederà realmente quando la pandemia sarà finita non lo possiamo sapere ma sappiamo che occorre lavorare affinché i progressi fatti non vadano persi.

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Economia, StartUp e Fintech

La tecnologia in finanza, un’evoluzione in corso

Ci sono due aspetti complessi e delicati del mondo finanziario che possono essere supportati dall’innovazione tecnologica: la regolamentazione e la supervisione di questo settore.

Il settore finanziario è il più regolamentato e controllato dalle autorità preposte, e se pensiamo all’ultima crisi finanziaria globale ne possiamo anche comprendere il perché. I principali obiettivi della regolamentazione del settore finanziario sono assicurare stabilità, trasparenza ed efficienza mentre la supervisione è molto importante per verificare che le varie norme vengano rispettate.

La complessità della normativa che regola l’attività delle varie istituzioni finanziarie e il suo continuo aggiornamento comporta costi rilevanti per tali imprese e questo è uno dei motivi per cui è in corso lo sviluppo di tecnologie innovative che possano essere di supporto nell’implementazione, adeguamento e rispetto delle norme; questa declinazione del FinTech (Financial Technology) ossia tecnologia a supporto della finanza, viene spesso definita RegTech (Regulation Technology).

L’altro ambito che ha incontrato il supporto della tecnologia è la supervisione del settore finanziario, dando via al SupTech (Supervisory Technology). Come per la RegTech, la risorsa più importante è rappresentata dai dati grazie ai quali le autorità di vigilanza possono efficientare le loro varie attività di supervisione riducendo tempo e costi.

L’universo di start-up

L’azienda di consulenza e revisione Deloitte ha condotto recentemente uno studio individuando 413 principali aziende dello scenario del RegTech suddividendole in base all’area specifica per la quale offrono i loro servizi innovativi: reporting normativo, gestione del rischio (risk management) che oggi è ritenuto essenziale per scongiurare crisi o affrontarne una imminente, gestione e controllo delle identità ossia facilitare una adeguata valutazione e verifica dell’identità dei clienti oltre a controlli anti-riciclaggio e anti-frode, conformità alle norme (compliance) e controllo delle transazioni.

Tra le aziende leader in questo nuovo ambito figura Corlytics per l’area risk management, che offre servizi a una varietà di clienti quali banche globali e regionali, compagnie di assicurazione, enti regolatori. Corlytics raccoglie, classifica, interroga e analizza automaticamente le norme delle autorità di regolamentazione di tutto il mondo per offrire ai suoi clienti una gestione basata sui Big data.

Il Financial Conduct Authority, l’ente di regolamentazione finanziario inglese, in un articolo sul sito ufficiale parla di circa 1000 start-up attualmente attive nel RegTech e prevede un valore di mercato in crescita, che potrebbe raggiungere €55 miliardi entro il 2025, considerando che l’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di digitalizzazione e automazione.

Autorità nel mondo

Tra le prime autorità che hanno utilizzato queste tecnologie ci sono il FCA inglese, l’ASIC in Australia e la MAS a Singapore. In Europa L’EBA, European Banking Authority, ha avviato lo scorso anno una consultazione rivolta ad istituzioni finanziarie e a fornitori di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, rimandando alla prima metà di questo anno la pubblicazione dei risultati che possono guidare all’utilizzo di soluzioni RegTech.

In Europa la crisi finanziaria e successivamente quella del debito hanno portato alla luce la necessità di una unione anche sul fronte bancario, ritenuta essenziale per completare l’unione economica e monetaria, ed è stata messa in pratica mediante la costituzione dell’Unione Bancaria Europea che si fonda su due pilastri: il Meccanismo di Vigilanza Unico e il Meccanismo di Risoluzione Unico. Un terzo punto è attualmente in discussione e riguarda la creazione di uno schema unico di garanzia dei depositi. Le moderne tecnologie, l’Intelligenza artificiale e il Machine learning sono strumenti imprescindibili che permetterebbero alle autorità di vigilanza di poter gestire ed elaborare la grande quantità di dati e informazioni con cui lavorano ogni giorno.

La tecnologia non solo può migliorare le performance a tutti i livelli, ma potrebbe cambiare completamente alcuni paradigmi e approcci sin qui utilizzati. Ne è un esempio una dimostrazione avvenuta durante un evento in streaming tenuto dall’ente australiano ASIC: un’impresa ha dimostrato il potenziale di un’intelligenza artificiale che potrebbe valutare il grado di solvibilità di un individuo da alcuni tratti comportamentali e caratteriali e ciò permetterebbe di poter concedere credito anche a clienti di cui si hanno pochi dati oppure clienti di paesi emergenti che hanno difficoltà a dimostrare la propria capacità di rimborsare debiti e, di conseguenza, a ottenere un prestito per le loro iniziative imprenditoriali. I dati psicometrici sono stati comparati con dati storici ed è stata rilevata una affidabilità dei dati psicometrici del 91%.

Cooperazione globale

A livello globale emerge un supporto allo sviluppo di nuove tecnologie che vede il coinvolgimento di molte istituzioni ed enti con diverse iniziative, attività di networking/brainstorming e inviti all’azione.

Lo scorso anno la BIS, Banca dei regolamenti internazionali, e la presidenza saudita del G20 con il supporto di altre importanti autorità hanno organizzato una competizione che invitava a trovare soluzioni per le più grandi sfide della regolamentazione e supervisione finanziaria; i 3 vincitori sono stati invitati a mostrare i loro risultati al Singapore Fintech Festival dello scorso novembre.

Più recentemente durante il G20 tenutosi il 7 aprile è stata sottolineata nuovamente l’importanza di dati precisi e tempestivi a disposizione dei policy makers affinché possano prendere decisioni efficienti, soprattutto durante periodi di crisi come quello attuale. Nel comunicato stampa emerge la necessità di cogliere le opportunità offerte dalla tecnologia per stimolare la ripresa e dare avvio a una nuova iniziativa sulla lacuna dei dati (Data gaps iniziative – DGI). Il DGI del G20 è nato nel 2009 in seguito alla crisi finanziaria ed è un insieme di 20 raccomandazioni per il miglioramento dei dati statistici economici e finanziari che possono essere impiegati dai responsabili politici e le autorità di vigilanza.

Le sfide

I benefici dell’utilizzo delle nuove tecnologie sono dunque tanti in termini di efficienza, risparmio di tempo e denaro, maggiore sicurezza, minori rischi, contrasto alla criminalità, inclusione finanziaria ma rimangono alcune sfide: privacy, attacchi informatici, fiducia verso le imprese RegTech che devono trattare dati delicati, sviluppo competenze specifiche, complessità e varietà di scenari potenzialmente di difficile interpretazione per le macchine sono alcuni dei problemi che saranno al centro delle future discussioni dei player del settore.

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Ambiente, società e tecnologia

Bias negli algoritmi: come le macchine apprendono i pregiudizi dagli esseri umani

L’impatto della tecnologia sulle nostre vite sta crescendo rapidamente. Algoritmi di Intelligenza Artificiale vengono quotidianamente applicati in diversi ambiti: in campo medico, nei veicoli a guida autonoma, per determinare se siamo meritevoli di un mutuo o stabilire se ci meritiamo una determinata posizione lavorativa, come accaduto nel caso di IMPACT, uno strumento di valutazione degli insegnanti impiegato a Washington durante l’anno scolastico 2009-10. Secondo uno studio condotto da Oberlo, il numero di aziende che adottano tecniche di Intelligenza Artificiale è cresciuto del 270% negli ultimi 4 anni. Le statistiche di Gartner mostrano come, nel 2019, un’azienda su tre sfrutti l’Intelligenza Artificiale o abbia intenzione di farlo. Risulta quindi evidente quanto questi algoritmi impattino sulle nostre vite, lasciandoci il più delle volte ignari ed impotenti nei loro confronti.

Un errore in un algoritmo potrebbe non sembrarci molto piacevole, ma nemmeno poi così grave: se Netflix ci consiglia un film che non ci piace o se Siri imposta la sveglia ad un orario sbagliato ci troviamo di fronte inezie per cui potremmo chiudere un occhio, viste le innumerevoli facilitazioni che ci offrono. Ma cosa accadrebbe se l’errore riguardasse un algoritmo di guida autonoma? Oppure se venissimo scartati ad un colloquio lavorativo per il sesso, la religione o la razza? 

Anche gli algoritmi sbagliano

L’errore che probabilmente ha fatto più scalpore negli ultimi anni è legato all’algoritmo di software di recruitment utilizzato da Amazon a partire dal 2014. Questo software, come spiegato nell’articolo dell’Ansa, era ritenuto in grado di analizzare i curriculum dei candidati ed automatizzare la procedura di selezione. Tuttavia è emerso come esso penalizzasse le donne, specialmente per le posizioni legate a ruoli più tecnologici. L’errore era dovuto ai dati con cui il modello è stato addestrato: dati reali, contenenti i curricula ricevuti dalla società nei 10 anni precedenti; CV prettamente maschili, data la maggioranza di uomini nel settore tecnologico. Come spiega l’articolo de Il Sole 24 Ore, il modello ha riconosciuto in modo automatico un pattern che delineasse i migliori candidati, inglobando tra le caratteristiche ideali il genere maschile, e incorrendo così in un bias. Un bias è un errore sistematico di giudizio o di interpretazione, che può portare a un errore di valutazione o a formulare un giudizio poco oggettivo. È una forma di distorsione cognitiva causata dal pregiudizio e può influenzare ideologie, opinioni e comportamenti. In informatica, il bias algoritmico è un errore dovuto da assunzioni errate nel processo di apprendimento automatico. Questo errore, ha costretto Amazon a dismettere il software.

Da una ricerca condotta invece nel 2018 da Joy Buolamwini e Timnit Gebru, due ricercatori del MIT e della Stanford University, è emerso che tre programmi di riconoscimento facciale rilasciati sul mercato da importanti aziende tecnologiche incorporavano pregiudizi razziali e di genere. Negli esperimenti condotti dai due ricercatori, è stato rilevato che nel determinare il sesso degli uomini di pelle chiara i tassi d’errore dei programmi di riconoscimento facciale non hanno mai superato lo 0,8% mentre, per le donne con pelle scura, le percentuali salivano al 20% in un programma e ad oltre il 34% negli altri due. Queste stesse tecniche incentrate sull’elaborazione di dati biometrici, utilizzate per cercare di determinare il sesso di qualcuno, possono essere impiegate anche per identificare un individuo e applicate in diversi ambiti, ad esempio per individuare persone sospettate di crimine.

Infatti, un altro caso di bias algoritmico è quello riscontrato in un software denominato COMPAS, affidato diversi anni fa ad alcuni giudici americani per supportarli nel quantificare la pena da imputare ai condannati. Come si legge in un articolo pubblicato su Internazionale, l’algoritmo di Compas incorporava pregiudizi nei confronti degli afroamericani: il dataset utilizzato nella fase di addestramento del software non includeva dati bilanciati nei confronti delle diverse etnie, e di conseguenza gli afroamericani avevano quasi il doppio delle possibilità, rispetto ai bianchi, di essere etichettati come ad alto rischio, anche se poi in futuro non commettevano altri reati.

Problemi e possibili soluzioni

Gli errori precedentemente riportati avvengono poiché addestrando i modelli di Intelligenza Artificiale attraverso le enormi quantità di dati a nostra disposizione, l’AI incorpora valori e bias intrinsechi della società.

Nonostante l’immaginario comune ci porti a considerare un algoritmo come un processo decisionale perfetto, superiore al ragionamento umano (considerato invece influenzabile e non obiettivo), perché in grado di processare una molteplicità di dati in modo imparziale, nella realtà non è così. Come spiegato nella guida di Google, gli algoritmi di intelligenza artificiale non sono liberi da bias, in quanto, come accennato prima, il bias è contenuto nei dati con cui i modelli vengono addestrati. In altre parole, i modelli ereditano il bias basato su razza, genere, religione o altre caratteristiche dai dati che vengono forniti loro e, in alcuni casi, possono addirittura enfatizzarlo. In particolare, il bias può essere introdotto in qualsiasi fase della pipeline di apprendimento: a partire dall’adozione di un dataset inadeguato, da un processo di apprendimento errato o addirittura da un’incorretta interpretazione dei risultati. 

L’Algorithmic fairness è un campo di ricerca in crescita che mira a mitigare gli effetti di pregiudizi e discriminazioni ingiustificate sugli individui nell’apprendimento automatico, principalmente incentrato sul formalismo matematico e sulla ricerca di soluzioni per questi formalismi. È un ambito di ricerca interdisciplinare che ha l’obiettivo di creare modelli di apprendimento in grado di effettuare previsioni corrette dal punto di vista di equità e giustizia.

Come riportato nel paper di Ninareh Mehrabi, una prima difficoltà che caratterizza questo ambito di ricerca è la mancanza di una definizione esaustiva e universale di correttezza (fairness): vengono infatti proposte molteplici definizioni a seconda dei diversi contesti politici, religiosi e sociali.

Il bias può manifestarsi infatti nei confronti di diverse minoranze, con specifiche caratteristiche di genere, religione, razza o ideologia; come precedentemente accennato, può essere introdotto da diversi fattori e manifestarsi in diverse fasi della pipeline di apprendimento. A seconda della tipologia di bias e del modo in cui esso si manifesta, lo stato dell’arte propone diverse metriche per la misurazione del bias e tecniche per attenuarlo; ne sono un esempio il toolkit per misurare e mitigare il bias proposto da IBM e gli indicatori di equità proposti da Google.

Lo studio di queste problematiche è all’ordine del giorno e, come evidenziato nel paper di Pessach, i diversi sotto-ambiti di ricerca sono in continua crescita e costituiscono sfide attualmente aperte. L’importanza di ottenere algoritmi equi e corretti è cruciale, e per farlo è necessario rimuovere il bias dalle diverse fasi della pipeline, a partire dalla fase di raccolta dei dati. Ad oggi, sembra più facile rimuovere il bias e rendere eticamente equi gli algoritmi piuttosto che gli esseri umani.

Europa: la proposta di Regolamento Europeo sull’Intelligenza Artificiale

Il 21 aprile 2021 la Commissione europea ha pubblicato la proposta di regolamento sull’approccio europeo all’intelligenza artificiale, un documento in cui vengono valutati i rischi connessi a questo strumento con l’obiettivo di “salvaguardare i valori e i diritti fondamentali dell’UE e la sicurezza degli utenti”.

Secondo la Commissione europea, di fronte al rapido sviluppo tecnologico dell’Intelligenza Artificiale e a un contesto politico globale in cui sempre più paesi stanno investendo massicciamente in questa tecnologia, l’Unione Europea deve agire all’unisono per sfruttare le numerose opportunità offerte dall’AI e al contempo affrontarne le sfide, per promuovere il suo sviluppo senza tralasciare i potenziali rischi che pone per la sicurezza delle persone.

Nella proposta di regolamento europeo sono presenti sia regole di trasparenza applicabili a tutti i sistemi di intelligenza artificiale, sia disposizioni più specifiche per i sistemi ad alto rischio, come ad esempio quelli impiegati per valutare gli studenti e determinare l’accesso a istituzioni di formazione, i sistemi utilizzati per la selezione del personale, per promuovere o licenziare il personale, per assegnare compiti e mansioni, e per valutarne le performances, e i sistemi per valutare l’affidabilità e veridicità delle informazioni fornite da persone fisiche per prevenire o indagare su reati, i quali saranno obbligati a rispettare alcuni requisiti relativi alla loro affidabilità. La proposta di regolamento europeo descrive inoltre alcune pratiche vietate di intelligenza artificiale, quali ad esempio l’impiego di sistemi che utilizzino tecniche subliminali su persone inconsapevoli al fine di influenzarne il comportamento e causare danni fisici o psicologici, la messa in servizio di sistemi di Intelligenza Artificiale da parte di pubbliche autorità o per loro conto che valutino o classifichino l’affidabilità delle persone fisiche sulla base del loro comportamento sociale o di caratteristiche di personalità, attribuendo loro un punteggio sociale che generi in risposta un comportamento sfavorevole sproporzionato rispetto alla gravità del loro comportamento sociale. Viene inoltre vietato l’uso di sistemi di identificazione biometrica remota in tempo reale negli spazi accessibili al pubblico ai fini dell’applicazione della legge, a meno che non ci si trovi nell’eventualità di dover cercare in maniera mirata potenziali vittime di crimini, come i bambini scomparsi, o si debba intervenire per la prevenzione di minacce imminenti come il rischio di un attacco terroristico; l’impiego di tali algoritmi è autorizzato anche per l’identificazione e la localizzazione di un autore di reato o di un sospettato punibile con una pena di almeno tre anni. Per l’uso di tali sistemi di identificazione biometrica, si legge ancora nella proposta, sono comunque previsti una serie di specifici requisiti.

Risulta evidente come le potenzialità dei sistemi di Intelligenza Artificiale siano molteplici, ma allo stesso tempo potenzialmente rischiose ed è incredibile come le macchine riescano ad apprendere e riprodurre il pregiudizio umano, trasformandosi in sistemi non equi ed ingiusti e ritrovandosi ad emulare quella che è la società odierna. Gli studi e le misure adottate per la mitigazione del bias algoritmico si stanno rivelando un ottimo strumento, chissà se che con altrettanti sforzi si riuscirà un giorno a correggere anche il bias umano, risolvendo così il problema alla radice.

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La scimmia di Elon Musk gioca a pong con il pensiero grazie a Neuralink

Una scimmietta davanti a un monitor gioca al famoso videogame Pong, è quello che si vede da un video pubblicato dall’azienda di Elon Musk: Neuralink. Non ci sarebbe nulla di strano nel vedere un primate addestrato per giocare a un videogioco, se solo non fosse che lo stava controllando soltanto con il pensiero.

Cos’è e come funziona:

Il protagonista del video diventato virale è Pager, un macaco di 9 anni, scelto dalla compagnia statunitense di neurotecnologie per lo sviluppo di interfacce uomo-macchina per questo esperimento che Musk stesso sul social vocale Clubhouse aveva dichiarato già a febbraio di quest’anno. Nella prima metà del video si vede come il primate, attaccato ad una cannuccia che eroga del frullato di banana, con la mano destra su un joystick, gioca al videogioco Pong, rinominato per l’occasione MindPong. In un secondo momento, terminata la fase di apprendimento, il joystick viene scollegato ma Pager continua tranquillamente a giocare come se nulla fosse successo. Ciò che la fa proseguire senza dover controllare il gioco con la mano, è un dispositivo che le permette di farlo con la mente:  il chip wireless N1 Link, abbreviato “The Link” impiantato nel suo cranio.

Questo chip è un dispositivo di registrazione neurale e di trasmissione dati dotato di 1.024 elettrodi e alla scimmia ne sono stati impiantati due: uno a livello della corteccia motoria di destra e l’altro a sinistra. Nella prima fase di apprendimento, non solo il macaco stava imparando a giocare, ma anche i ricercatori hanno potuto costruire un modello di attività neurale dell’animale a computer. Partendo dal Link che riesce a captare i potenziali d’azione dei neuroni, ovvero la “scossa elettrica” che rilasciano quando vengono attivati da scambi di informazioni, questi vengono aggregati e conteggiati ogni 25 millisecondi per ognuno dei 1.024 elettrodi. Contemporaneamente, sempre ogni 25 millisecondi il chip trasmette i conteggi aggregati via Bluetooth ad un computer in grado di eseguire un software di decodifica apposito: un algoritmo di machine learning che sia in grado di tradurre i segnali elettrici del cervello in segnali digitali e arrivare anche a prevedere le potenziali mosse future dell’animale.

L’esperimento con Pager ha fatto fare dei grossi passi avanti all’azienda, se teniamo conto del fatto che il massimo a cui si era arrivati l’anno scorso con la maialina Gertrude era rilevare i segnali cerebrali quando questa, usando il suo olfatto, rilevava qualcosa di gustoso; ma questo test secondo Musk è solo l’inizio, perché il progetto in sé è molto più ambizioso.

Il vero progetto del CEO visionario

L’esperimento non è stato fine a sè stesso, ma fa parte del processo di studio e sviluppo di questa  tecnologia per aiutare le persone con disturbi neurologici e che hanno subito amputazioni agli arti, attraverso un impianto neurale wireless poco invasivo che permetterebbe loro di riavere alcune abilità, anche motorie.

L’idea sarebbe quella di collegare The Link , precedentemente impiantato nel cranio del paziente e delle dimensioni di una monetina, ai dispositivi d’uso quotidiano come gli smartphone per permettergli di utilizzarlo, oppure ad un arto bionico riuscendo a muoverlo così come muoviamo i nostri arti funzionanti.

Aiutare i pazienti paralizzati, che hanno subito amputazioni ma anche con malattie neurodegenerative come il Parkinson, è il risultato ideale che se Musk riuscisse a raggiungere potrebbe portare ad una vera rivoluzione; come lui stesso ha affermato: “può effettivamente risolvere problemi come ictus, paralisi, cecità, perdita dell’udito, disturbo dello spettro autistico, Parkinson e patologie come ansia e depressione, ma molte persone non se ne rendono conto. Tutti i sensi – vista, udito, olfatto -, ma anche sensazioni di vario tipo come il dolore sono segnali inviati dai neuroni al cervello. Correggendo questi segnali si può correggere tutto

Le sue mire però non finiscono qui: il suo piano sarebbe non solo di portare questa tecnologia a malati di questo tipo, ma arrivare anche alle persone sane, facendola diventare un prodotto di massa in modo tale che impiantata sulla maggior parte delle persone, ci renda in grado di difenderci dall’avanzata dell’intelligenza artificiale che a suo avviso potrebbe, in un futuro non troppo lontano, superare completamente l’essere umano nella folle corsa verso il progresso.

Nonostante sembri fantascienza, non è una novità totale

L’idea di Elon Musk di registrare segnali cerebrali e trasmetterli ad un computer può sembrare innovativa, ma altri neuroscienziati, hanno provato a portare avanti questi studi ben prima dell’imprenditore sudafricano. Già nel 1963, José Manuel Rodriguez Delgado creò un dispositivo predecessore delle attuali interfacce uomo-macchina impiantando un elettrodo radiocomandato nel nucleo caudato del cervello di un toro e fermando la corsa dell’animale premendo un pulsante di un trasmettitore remoto. Uno dei primi esperimenti con un chip è stato portato avanti dal neuroscienziato Eberhard Fetz che nel 1969 effettuò uno studio in cui delle scimmie furono addestrate ad attivare un segnale elettrico nel loro cervello per controllare l’attività di un singolo neurone, appositamente registrata da un microelettrodo metallico.

Un’altra vicenda degna di nota in questo ambito è quella del giovane Neil Harbisson che nel 2004 è diventato la prima persona al mondo ad indossare un’“antenna” che gli permette di “sentire i colori” a seconda della frequenza espressa, nonostante la sua acromatopsia (impossibilità totale di vedere i colori a livello cerebrale), diventando il primo uomo-cyborg riconosciuto. Nel 2010 ha inoltre fondato la Cyborg Foundation, un’organizzazione internazionale per aiutare gli umani a “diventare” cyborg; lui probabilmente si direbbe d’accordo con i progetti di Neuralink.

Prospettive future e problemi: gli ostacoli e le opportunità per Neuralink

Nonostante l’idea di base di impiantare un chip nel cervello, sia già realtà in ambito biomedico, la volontà di Musk di spingersi oltre potrebbe presentare dei problemi.

In primis il fatto che il chip tenderebbe a deteriorarsi nel cranio provocando delle potenziali infezioni e successivamente il danneggiamento dei neuroni a cui The Link stesso è collegato, nonostante l’obiettivo sia farlo durare “per decenni”. In secondo luogo il prezzo potrebbe non essere accessibile a chiunque, anzi,  a detta sua verrebbe a costare “fino a qualche migliaio di dollari”, rendendolo un lusso di pochissimi e aumentando il divario tra ricchi e poveri andando a creare una classe elitaria con dei “superpoteri” che altri potrebbero solo sognare. Infine anche chi se lo può permettere, potrebbe avere dei seri dubbi nel farsi impiantare un apparecchio nel cranio laddove questa necessità non fosse impellente, con la consapevolezza che, come tutte le tecnologie, anche The Link potrebbe essere hackerato e a quel punto gli effetti catastrofici si potrebbero solo immaginare.

Tuttavia, adesso che The Link ha ricevuto tutte le autorizzazioni dalla FDA (Food and Drug Administration) la sperimentazione sugli esseri umani potrebbe essere più vicina che mai: con uno dei suoi tweet il CEO ha annunciato i primi test entro la fine di questo 2021, non ci resta che attendere, sperando di non diventare degli ostaggi dell’AI ancora prima di iniziare.

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Apprendere tramite la realtà virtuale: la nuova frontiera dell’istruzione

Indossare dei visori in aula per vedere comparire sul banco una cellula, una molecola o un pianeta, fare un esperimento di elettronica e maneggiare dei materiali pericolosi in totale sicurezza: queste sono solo alcune delle attività che si possono fare con la realtà virtuale per imparare meglio arrivando a “toccare con mano” e visualizzare oggetti normalmente impossibili. La missione di aziende come Google è portare tutto ciò quotidianamente nelle aule di scuole e università con l’obiettivo di rivoluzionare per sempre il mondo dell’apprendimento grazie a questa tecnologia.

Cosa sono realtà virtuale, realtà aumentata e le differenze

La realtà aumentata, augmented reality in inglese, è una tecnologia che permette di aggiungere le informazioni nel nostro campo visivo, andando ad arricchirlo di elementi nuovi grazie alla fotocamera dei dispositivi mobili sui quali sono stati installati appositi programmi. Il principio è quello dell’overlay ovvero la sovrapposizione di informazioni aggiuntive, definite ologrammi, a quelle già esistenti.

La realtà virtuale, virtual reality, riesce ad andare oltre: è una tecnologia immersiva che grazie ad un apposito visore, permette di immergersi in una realtà simulata alla perfezione, costruita in tre dimensioni e a 360 gradi che coinvolge non solo gli occhi ma anche l’udito e la propriocezione. Questi strumenti riescono a percepire i nostri movimenti, ricreando la scena come se fossimo nel mondo naturale: se si alza un braccio nel mondo esterno, si alzerà il corrispettivo ricreato nella simulazione, facendo credere al nostro cervello di trovarsi proprio lì; perché nonostante la consapevolezza di fondo di aver indosso un visore, la sensazione di embodiment crea un inganno per il cervello che si sente completamente presente.  A differenza della realtà aumentata, che si limita ad apparire in sovrapposizione, rimanendo ben distinguibile dal resto, la VR permette di immergersi totalmente nella scena rendendo difficile discernere ciò che è vero da ciò che è stato ricreato.

Esiste inoltre un terzo tipo, di realtà virtuale/aumentata, la cosiddetta mixed reality in cui AR e VR vengono unite: gli ologrammi già presenti nell’AR superano la staticità permettendo l’interazione come accade nella VR, rimanendo però nettamente distinguibili dalla realtà e perciò non è definibile immersiva.

AR/VR e ambiti di applicazione

Le realtà estese, citando una macro-categoria per racchiuderle tutte, hanno fatto il loro debutto nel mondo dell’entertaiment dando vita a videogiochi ultraimmersivi, ma negli ultimi anni è stato possibile vedere come possono essere applicate ad un’infinità di ambiti.

Alcuni sono più ovvi di altri, come quello industriale, dove diventerebbe possibile, semplicemente inquadrando un macchinario sconosciuto, visualizzare tutte le istruzioni  per il funzionamento sottoforma di animazioni dettagliate. Allo stesso modo può essere utilizzata per le training di addetti alla manutenzione di sistemi pericolosi come i tralicci dell’alta tensione dove sbagliare può costare la vita ed è anche molto facile per una persona alle prime armi; come sostiene Lorenzo Cappannari di AnotheReality: “se prima lo si insegna in modo altrettanto realistico ma totalmente sicuro in una simulazione, si può sbagliare tutte le volte che si vuole senza problemi e sbagliando, imparare”.

Grazie alle realtà estese è realmente possibile continuare a sbagliare senza nessuna conseguenza, caratteristica utile a professionisti come il pilota di velivoli, ma anche il chirurgo. Proprio a supporto di quest’ultimo, è il progetto della startup italiana Artiness che ha l’obiettivo di portare la realtà aumentata in sala operatoria per rendere gli interventi delicati più sicuri.

Realtà virtuale solo per settori “di rischio”?

L’industria e l’healthcare tuttavia non sono gli unici settori coinvolti, perché questo tipo di tecnologia ben si sposa con un ambito fondamentale: la formazione. In questi anni si sta fortemente sperimentando la VR per la formazione del personale delle aziende che invece di dover organizzare dei continui e dispendiosi corsi di formazione in presenza possono creare una simulazione ad hoc per il tipo di mansione che deve essere svolta, e presentarla ad ogni nuovo impiegato che, dotato di un visore, può imparare efficacemente la procedura, alla quale è stata aggiunta la componente di gamification.

Realtà estesa e apprendimento: ecco perché è così efficace

Il forte potenziale non si trova solo in ambiente lavorativo, ma anche in quello scolastico con bambini e ragazzi. La tecnologia evolve di giorno in giorno, ma nelle aule spesso rimane ancora la lavagna con il gesso quando invece sarebbero disponibili gli strumenti per rendere l’apprendimento non solo più interessante ma anche molto più efficace.

Per spiegare il perché dell’efficacia, è necessario fare riferimento alle neuroscienze: le ultime scoperte sul cervello spiegano che per apprendere meglio e quindi ricordare più a lungo comprendendo a livello profondo quello che si sta studiando, il modo migliore è fare. Il cono dell’apprendimento è un grafico che fa notare come dopo due settimane si ricorda solo il 10% di quanto si è letto, ma ben il 90% di quello che si è fatto rendendo l’apprendimento attivo.

In aggiunta, i mondi creati da AR e VR rendono l’esperienza di apprendimento coinvolgente e quindi emozionante, parola chiave in contesto di memoria in quanto, come dimostrano molteplici studi, più il materiale da imparare si lega alle emozioni e maggiore sarà il ricordo, perché concepito come rilevante per il cervello. Proprio per la loro capacità di generare e modificare emozioni anche permanentemente, sono considerate le prime tecnologie “trasformative”.

La nuova frontiera scolastica: i visori per tutti

Con le dovute premesse diventa evidente come la mixed reality possa essere rivoluzionaria per scuole e università. Già a partire dalle elementari, fino alla formazione superiore, le realtà estese possono aiutare gli insegnanti a spiegare concetti complessi e visualizzare oggetti fisici difficilmente comprensibili dalle immagini appiattite e poco realistiche dei libri; permettendo così di studiare in modo coinvolgente tutti gli argomenti: dalla biologia all’arte, dalla fisica alla chimica fino all’informatica e le lingue.  Si avrà dunque l’opportunità di capire a fondo teorie che sarebbero altrimenti estremamente nozionistiche, rendendole invece fortemente esperienziali.

Aziende come Google in partnership con Labster, ma anche Lenovo, hanno compreso a pieno la potenzialità e stanno lavorando a delle soluzioni per estendere quando più possibile l’utilizzo di queste tecnologie nella didattica di tutti i giorni. L’azienda californiana con il progetto “for education” ha trovato una possibile soluzione in continua evoluzione per portare la mixed reality nelle scuole, senza costi eccessivi: le Cardboard, delle custodie di materiale non fragile come cartone o plastica in cui inserire uno smartphone e utilizzarlo come prototipo di visore. La proposta è avvalorata dal fatto che esistono già delle applicazioni installabili sui devices che accompagnano gli studenti nella didattica interattiva. Nonostante Google stessa abbia ammesso che sia un progetto ancora parecchio acerbo, la prima scintilla è stata accesa e le potenzialità di sviluppo futuro sono molte, ciò che va ridimensionato è il sistema d’istruzione.

La strada potrebbe essere lunga

La scuola deve fare ancora molti progressi su questo fronte e gli ostacoli da superare per portare la trasformazione digitale in tutti gli istituti d’Italia non sono sicuramente pochi: a partire dai fondi per le tecnologie stesse e la formazione degli insegnanti, come sostiene Stefania Strignano, dirigente dell’Istituto Ungaretti di Melzo, una delle prime scuola statali italiane che ha rivoluzionato il metodo d’insegnamento tramite laboratori creativi, utilizzo di strumenti digitali e didattica personalizzata: “in primo luogo c’è da investire sul capitale umano ovvero i professori che per primi devono interiorizzare il cambiamento e saperlo portare agli alunni”.

Il lavoro da fare è parecchio ma il potenziale ancora di più e le ricerche scientifiche oltre che i risultati ottenuti da scuole pioniere, lo dimostrano. Vale la pena approfondire lasciandosi immergere nella trasformazione digitale.

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Biovaproject: dal pane invenduto alla birra, un brindisi contro lo spreco alimentare

Andare a prendere il pane invenduto dal panettiere locale o al supermercato, macinarlo e ricavarne birra che poi verrà venduta negli stessi negozi che hanno fornito il loro pane avanzato. Questo è ciò che da un anno a questa parte fanno i ragazzi di Biova, una startup piemontese che ha dichiarato lotta allo spreco alimentare con il motto: “la birra non avanza mai, il pane purtroppo sì” e i numeri lo possono confermare: 1300 tonnellate di pane avanza in tutta Italia ogni giorno.

Abbiamo deciso di intervistare Franco Dipietro, Founder e CEO di BiovaProject che ci ha raccontato come è iniziato questo progetto di economia circolare, come si immaginano in futuro, ma anche le difficoltà che un’iniziativa impegnativa quale una startup possono portare.

Franco, domanda semplice per iniziare, sempre presente quando si parla di idee innovative, come vi è venuto in mente questo progetto?

“L’idea è arrivata pian piano a partire da un percorso di comunicazione e marketing che abbiamo portato avanti negli ultimi anni verso delle onlus, cominciando a frequentare il loro ambiente, nella fattispecie quelle che si occupano del recupero alimentare. é stato proprio da lì che abbiamo capito l’enormità della questione, nello specifico di quella del pane considerato da sempre l’incubo di queste organizzazioni dato che purtroppo ne avanza tantissimo ed è molto difficile da rimpiazzare in beneficenza, anche regalandolo non si riesce a non buttarne via, data l’inimmaginabile quantità. Fatte queste osservazioni, sapendo che esiste un modo per fare birra dal pane, abbiamo semplicemente unito le due cose creando un modello di business capace di andare a recuperare questi sprechi.”

Quali sono le difficoltà maggiori che state affrontando o che avete affrontato?

“La difficoltà non è assolutamente quella di trovare pane avanzato, come ho detto ce n’è tantissimo e fare la birra da esso di per sé non è un problema, la vera difficoltà è fare in modo che arrivi in tempo utile, andando ad intercettarlo al momento giusto per essere trasformato e quello è ciò che va studiato e messo in regola, proprio questa è la forza di Biova Project: andare a perfezionare il modello logistico di recupero, ancora in sviluppo.”

Avete degli obiettivi a lungo termine? Come vi vedete tra 10 anni?

“Per il momento stiamo operando nel nord-ovest dell’Italia tra Piemonte, Liguria e Lombardia, molto di più di alcuni nostri competitor che lo fanno a livello di quartiere, noi facciamo anche quello, ma cercando di espanderlo ad un livello più ampio. Se vogliamo guardare sul lungo termine, il nostro piano chiaramente è aumentare il valore della società e la sua capacità di recupero, l’obiettivo principale per noi è “salvarne” il più possibile, ci piacerebbe ampliarci, prima sul territorio nazionale e poi, perchè no, in futuro anche internazionale, insomma siamo un po’ all’inizio per dirlo ma l’idea c’è.”

Hai un’avventura da startupper, un momento particolare di questa crescita che porti nel cuore?

“Anche se siamo ancora agli albori, penso che la cosa più bella sia l’interesse che si è creato sia a livello di istituzioni, sia a livello dei singoli; il piacere vero è quando ti scrivono ragazzi come te a cui piacerebbe intervistarci ritenendo che l’idea sia bella, e per fortuna di persone così ce ne sono tante, questa è la soddisfazione principale per adesso; perchè posso assicurare che portare avanti una startup vuol dire avere 10 milioni di problemi attorno.”

Quali sono stati se ne avete ricevuti, i no di questa vostra avventura?

“Non abbiamo ricevuto pareri sconfortanti, sotto questo punto di vista, anzi, sono tutti molto disponibili ad aiutare, l’argomento alla fine è incontestabile. Capita però, a volte, di incontrare qualcuno che la vede solo dal punto di vista puramente economico e non gli interessa davvero l’ideale, magari ti ascolta per il progetto e poi lo fa alle spalle, in un’ottica totalmente diversa dunque. La parte più fastidiosa è forse questa perchè frazionare il progetto significa farlo funzionare meno, non di più e ciò va contro la nostra missione.”

Il lavoro da fare è ancora tanto, ma le soddisfazioni stanno arrivando: Biova è tra le migliori startup italiane di quest’anno, tra le prime 77 della classifica di B-Heroes definite “le magnifiche 77” e ancora con tanti obiettivi davanti. Iniziative come questa fanno capire come ci sia molta voglia di cambiare alcune abitudini dannose per l’economia e l’ambiente, come la questione dello spreco, ce la faremo dunque a ridurlo sempre di più?

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Pedalare sulla Notte Stellata di Van Gogh: arte ed ecosostenibilità

Vicino Eindohoven, in Olanda, precisamente nella cittadina di Nuenen, è stata realizzata una pista ciclabile illuminata da ciottoli fosforescenti incorporati nel manto stradale, i quali di giorno assorbono la luce solare per poi rilasciarla di notte illuminando il percorso. L’effetto voluto è quello di ricreare l’atmosfera della celeberrima opera d’arte “La notte stellata” dell’artista olandese Van Gogh, omaggiando così la sua arte in uno dei luoghi in cui l’artista stesso ha vissuto un periodo della sua vita.

Van Gogh path

Nata dall’idea del designer olandese Daan Roosegaarde, “Van Gogh Path” è il nome di questa innovativa pista ciclabile, progettata in occasione del “Van Gogh 2015 International Theme Year” dedicato ai 125 anni dalla scomparsa dell’artista e successivamente inaugurata il 13 novembre dello stesso anno. Daan Roosegaarde, con la collaborazione di Heijmans Infrastructure, è riuscito a realizzare un asfalto smart con macchine road printer: le luci sono interattive, la vernice utilizzata è dinamica, si ricarica durante il giorno e la sua autonomia può arrivare fino ad 8 ore. La strada, lunga un chilometro, è stata realizzata con migliaia di pietre scintillanti dotate di luci a LED ad energia solare e di tecnologia glow-in-the-dark. Di notte, la pista si illumina offrendo uno spettacolo mozzafiato, gradito da turisti, residenti e soprattutto dai ciclisti. Dotata di ulteriori luci a LED in alcuni punti del percorso che garantiscono luce supplementare nel caso in cui le pietre non si siano caricate a sufficienza durante il giorno, la sua illuminazione non interferisce con l’ambiente circostante, né reca disturbi visivi ai ciclisti stessi, i quali si ritrovano immersi in una pedalata sulle stelle di Van Gogh.  Aggiungendosi alla pista già esistente lunga 335 chilometri, questo nuovo tratto collega due mulini a vento, in un percorso che permette di visitare i luoghi della vita del noto artista olandese.

Smart highway…

Quest’opera è la seconda di cinque segmenti che rientrano nel progetto “Smart Highway” dello Studio Roosegaarde, laboratorio di progettazione sociale che con il suo team di designer ed ingegneri professionisti ha sede in Olanda e a Shangai. L’obiettivo è quello di rendere le strade intelligenti, interattive e rispettose dell’ambiente, sfruttando la luce del sole, l’energia e la segnaletica stradale.

…e tecno-poesia

Il risultato di questo lavoro? Una pista ciclabile innovativa ed ecosostenibile, che combina arte e sostenibilità ambientale, attraverso soluzioni tecnologiche all’avanguardia, promuovendo ancora una volta la mobilità eco-sostenibile con l’utilizzo delle biciclette, tipiche dell’Olanda. Tutto ciò viene definito dall’artista e designer “tecno-poesia”, ovvero la tecnologia combinata con l’esperienza attiva.

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Golee, la soluzione per la trasformazione digitale del calcio: intervista a Felice Biancardi

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Federico Biancardi, Presidente e Co-fouder di Golee, startup innovativa vincitrice già di diversi premi, tra i quali il Qatar Sportstech 2019 e la Startup Competition 2020 di Confindustria Giovani Nazionale, e il cui obiettivo consiste nell’accelerare la digital trasformation del mondo del calcio.

Felice, iniziamo con il delineare il contesto all’interno del quale agite: com’è composto, quali sono gli elementi che lo caratterizzano/contraddistinguono e quali sono le sue criticità?

“Noi oggi siamo verticali nel mondo del calcio. Bisogna considerare che il 95% delle società sportive non ha accesso a tecnologia per il loro lavoro quotidiano. Questo vuol dire che la maggior parte delle innovazioni sono per le società grosse della Serie A: hanno dai droni alle webcam che costano centinaia di euro a magari partner o fornitori come Microsoft o Oracle, quindi grandissimi brand. Per il resto del mercato c’è davvero poco e pochissime startup o aziende che occupano dei servizi che aiutano appunto queste società a digitalizzarsi e a strutturare meglio la loro operatività quotidiana. Abbiamo pertanto creato una piattaforma che digitalizza tutte le operazioni amministrative, quindi tutto quello che viene fatto in segreteria dalla mattina alla sera, le attività finanziarie (la gestione delle entrate e delle uscite, il bilancio prima nota, ricevute, fatture), operazioni marketing e la parte sportiva. Sportiva intende tutte quelle attività legate al campo che ad oggi vengono gestite, un po’ come tutto il resto, con carta e penna o al massimo su Excel.”

Quali sono stati gli effetti del Covid-19 su questo settore?

Come si è visto quest’anno la maggior parte del mondo dello sport si è fermata, a parte la Serie A che comunque ha subito grossi danni. Le società sportive, senza più introiti, in tantissime sono fallite e altre semplicemente non possono lavorare. Ci sono ragazzi che non giocano a calcio da febbraio dell’anno scorso. Il settore è stato completamente stravolto e ammazzato dal virus, in attesa di riprendersi, come un po’ tutte le società sportive di qualunque tipologia di sport. A parte alcuni sport individuali, per brevi periodi, è stata veramente una mazzata.

Cosa vi differenzia rispetto ad altri soggetti operanti nel settore?

La maggior parte delle realtà offre servizi diversi, non tanto alle associazioni sportive quanto ai grandi club di Serie A, della Premier o della Liga. Nel nostro mondo, il famoso 95% di tutte le società, ci sono pochissime realtà che offrono servizi digitali e spesso sono molto verticali in specifiche attività. Noi invece integriamo in un’unica piattaforma un gestionale amministrativo, sportivo e finanziario, siti web automatizzati, e-commerce pronti all’uso, applicazioni per allenatori e per atleti. Il vantaggio, ovviamente, è che riusciamo ad avere economie di scala abbastanza elevate, più rapidi nell’acquisizione del cliente ed un pubblico più ampio di clienti. Inoltre, la società sportiva si trova più a suo agio con un unico fornitore, che garantisce un servizio qualitativamente più alto e servizi integrati tra loro. È un approccio alla Microsoft, diciamo.”

Quante società sportive avete raggiunto fino ad ora?

Da settembre 2018, momento in cui abbiamo lanciato la piattaforma a livello commerciale, abbiamo raggiunto 1400 società sportive, che vuol dire il 10% del mercato calcistico italiano, di cui l’85% l’abbiamo ottenuto durante il Covid. L’impennata in questa fase è data fondamentalmente dal fatto che abilitiamo le società sportive a poter lavorare da remoto. Di solito sono abituati a fare tutto quanto con carta e penna o utilizzando Excel, poi da un giorno all’altro si ritrovano a dover stare a casa. Come fanno a lavorare? Noi eliminiamo completamente i passaggi cartacei per le loro attività e gli diamo la possibilità di comunicare con tesserati, genitori e tifosi.”

Qual è la vostra strategia di comunicazione?

“Abbiamo diversi canali. Il primo canale di comunicazione è sicuramente la Federazione. Abbiamo delle partnership esclusive con federazioni della FIGC locali. Li sponsorizziamo, gli diamo gli strumenti per comunicare con le società sportive e tutte le società sportive in una determinata zona geografica che hanno Golee possono interagire e scambiare documenti con la propria federazione. Questo è il modo per noi per avere tanta pubblicità e per far sì che addirittura le federazioni usino il nostro programma. Inoltre, facciamo molta pubblicità online. Il marketing online è un qualcosa che pensavamo che in questo mondo all’inizio non avesse tanto spazio. In verità dall’ultimo anno, grazie al Covid, tutti quanti hanno imparato ad utilizzare un computer. Sembra assurdo ma è così: molti non usavano o non sapevano neanche cosa fosse Zoom invece adesso tutti quanti, presidenti e società, sanno usarlo. Il marketing online va molto bene e a costi bassissimi riusciamo a fare una bella penetrazione di mercato, con un boarding medio di almeno 25 società al mese soltanto dal marketing online che comunque abbiamo sperimentato da poco e abbiamo iniziato e stiamo perfezionando.

Il terzo canale di comunicazione è rappresentato dalle collaborazioni con terze parti, come Tuttocampo, Calciatori Brutti o altri partner o giornali locali con i quali facciamo del marketing più social o geo-localizzato, in maniera diversa in base anche ai prodotti che abbiamo.”

Quali difficoltà e/o resistenze avete riscontrato e state riscontrando durante il vostro percorso?

“In termini di difficoltà, bisogna considerare il fatto che il mondo dello sport è molto arretrato e costituito da volontari. Persone che non sono abituate a lavorare in maniera professionale e quindi i nostri strumenti inizialmente possono non essere capiti. Bisogna spiegarlo con un attimo di pazienza, poi quando lo capiscono sono entusiasti.  È come mio padre che fino a qualche anno fa mi diceva: “Felice, ma tanto è inutile, io l’iphone non lo utilizzerò mai, il telefono lo uso solo per le chiamate” invece oggi mio padre usa l’iphone più di me. Diciamo pertanto che la prima barriera è data dal non sapere che ci sono strumenti digitali, come dovrebbero essere utilizzati o quali sono i benefici.

Il 30 Novembre 2020 avete lanciato una campagna di crowdfunding su Backtowork: come investirete le risorse raccolte?

“La campagna l’abbiamo chiusa prima di Natale, in 20 giorni. In verità questa è soltanto una parte dei soldi che vogliamo raccogliere, però ci ha fatto tantissima pubblicità che ci serviva anche per una questione di marketing. Le risorse raccolte saranno spese soprattutto nel 2021 per due obiettivi. Uno è sicuramente il consolidamento del team, in quanto abbiamo bisogno di una batteria di programmatori più ampia e abbiamo bisogno di maggior budget per venditori. Conseguente anche al prendere nuovi programmatori sarà sicuramente il prodotto. Dobbiamo sviluppare delle parti del prodotto che sono molto avanzate, come i sistemi di pagamento: consentire a tutte le nostre associazioni sportive di far pagare i loro tesserati non più con bonifici o in cash, ma dando a tutti la possibilità di pagare con la carta di credito, tramite addebito diretto, pagamento a rate, farli pagare in maniera semestrale.

L’integrazione di marketplace, quindi il poter agire da distributori per le nostre società e vendere digitalmente centinaia di prodotti che acquistano loro tutti gli anni: palloni, conetti, porte, gli strumenti per i portieri, guantoni, sacche sportive. Agendo da distributore, riusciamo ad avere un rapporto qualità prezzo migliore.

In merito invece al futuro, quali sono le vostre prospettive a livello nazionale ed internazionale? State anche pensando di esplorare altri sport?

“A livello nazionale, entro fine 2021, vogliamo arrivare ad almeno 5 mila società sportive. Questo ci permetterà di essere, a livello di numeri, il più grande in Europa nel nostro settore. Come prospettive europee, quest’anno sarà la conquista dell’Italia e verso fine 2021 inizieremo a redigere delle strategie di internazionalizzazione che andranno intorno al mercato spagnolo, portoghese e francese. Ad oggi abbiamo iniziato dal calcio perché, in termini di numeri, è più grosso di tutti gli altri sport messi insieme. L’effort che abbiamo per entrare nel mondo del calcio è sì paragonabile agli altri sport però, come detto, ci porta molti più numeri e pertanto, anche per una questione di dispersione delle energie, siamo focalizzati su questa verticale.

Questo non vuol dire che non apriremo ad altri sport. La nostra piattaforma in verità già è pensata e ha già funzionalità multisport. Non lo stiamo spingendo perché non ci conviene, in termini di costi-benefici, però lo faremo sicuramente a breve, non so se quest’anno o l’anno prossimo.”

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Economia, StartUp e Fintech

Pagopa, app io e operazione cashback: la digitalizzazione della pubblica amministrazione

Da quasi un anno a questa parte il Covid-19 ha messo in seria difficoltà i motori dello stato italiano, portando alla luce i complessi e vetusti meccanismi che sono alla base del nostro sistema sociale, sanitario ed economico. In primo luogo la lentezza e complessità della macchina burocratica ha reso ancora più ardua la gestione della pandemia e la guida di un paese con cui è difficile comunicare a causa della scarsa digitalizzazione.

Il nostro paese è da anni caratterizzato da una inclinazione negativa al cambiamento digitale, considerato un elemento “estraneo” e difficilmente inseribile nel sistema produttivo e organizzativo statale. Da qualche anno a questa parte il Governo sta mettendo in atto manovre e riforme per permettere ai sistemi digitali di affiancarsi a quelli già presenti nelle macchine statali.

Nel 2019 abbiamo assistito alla nascita di pagoPA, società nata in seguito al Decreto Legge “Semplificazioni”. La piattaforma PagoPA ha aperto la strada alla fruizione dei servizi statali online, portando così ad una prima semplificazione e digitalizzazione dei sistemi della pubblica amministrazione.

Nel mese di aprile 2020 è stata poi creata dalla Agenzia delle Entrate l’App “IO” che propone diversi servizi online sulla scia della piattaforma “pagoPA” a cui questa è integrata. Entrambe le piattaforme rappresentano una finestra di comunicazione semplice e agevole tra il mondo della pubblica amministrazione e i cittadini che si registrano. Con l’applicazione “pagoPA” gli iscritti hanno modo di effettuare una serie di pagamenti tra cui multe, bolli e tributi che si possono concludere in modo sicuro e veloce tramite la nuova app “IO”.

Oltre agli avvisi di pagamento, l’App IO mette a disposizione tantissime prestazioni:

  • consente di ricevere messaggi da un ente;
  • essere costantemente al corrente di tutte le scadenze che sono ancora da effettuare;
  • conservare in modo digitale i propri dati personali.

Dal primo luglio al 31 dicembre 2020 è ad esempio possibile richiedere tramite l’app il Bonus Vacanze messo a disposizione dal Governo a seguito del “Decreto Rilancio”.

L’operazione Cashback rappresenta l’ultima e più innovativa novità dell’app “IO” resa accessibile dall’8 dicembre 2020. L’idea alla base dell’iniziativa è quella di incentivare i cittadini ad effettuare pagamenti cashless attraverso la restituzione di una percentuale di denaro speso. Il Governo propone così una strada alternativa per contrastare l’evasione fiscale nel nostro paese attraverso strumenti digitali e il coinvolgimento diretto e attivo degli iscritti: costoro vengono infatti “premiati” mediante la restituzione di una somma di denaro, se scelgono di pagare le loro spese con carte o applicazioni online al posto del denaro contante (ad esempio Satispay). Per usufruire di questo servizio gli acquisti devono essere effettuati in negozi fisici, non vengono considerate transazioni riguardanti le spese online. Una iniziativa certamente condivisibile e apprezzabile se mirata a salvaguardare l’identità di un negozio fisico, in un’epoca in cui l’e-commerce sta diventando lo strumento principale per fare acquisti a discapito delle PMI deI nostro paese.

Il Cashback è partito in due fasi

Il Cashback natalizio è in vigore dall’8 al 31 dicembre 2020 con lo scopo di incentivare le compere in vista delle festività natalizie. Per “sbloccare” il Cashback è necessario effettuare dieci transazioni. In questo modo ad ogni operazione, a partire dalla prima effettuata, sarà rimborsato un importo del 10% della spesa sostenuta fino a un massimo di 1500 euro e quindi una restituzione di massimo 150 euro.

Ci sarà poi una seconda fase del Cashback il 1gennaio 2021.

I rimborsi degli acquisti saranno semestrali per un massimo di 150 euro a semestre e un totale di 300 euro l’anno. È necessario che vengano effettuati almeno 50 pagamenti cashless a semestre. La restituzione avverrà alla scadenza del semestre tra i 30 e 60 giorni.

Per premiare i consumatori che effettuano il maggior numero di pagamenti cashless, è stato istituito anche un Super Cashback ovvero un cashback aggiuntivo sempre di durata semestrale a cui hanno diritto di partecipare i primi 100.000 registrati che hanno effettuato il maggior numero di transazioni nell’arco dei sei mesi.

Per il momento sono programmati 3 semestri in cui sarà possibile usufruire del servizio Cashback.

La piattaforma è in costante crescita ed evoluzione in un’ottica di ampliamento dei servizi al fine di rendere più snella la macchina burocratica del nostro paese.

L’app “IO” e il servizio Cashback ci mostrano un paese finalmente volenteroso nel voler perseguire una strada verso il mondo della digitalizzazione e della tecnologia in un’ottica di continua trasformazione ed evoluzione. Quale sarà ora il prossimo passo?