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In data 17 Novembre è stato reso noto su tutti i quotidiani nazionali l’epilogo del caso avvenuto nel 2018 della maestra di asilo nel Torinese, vittima di revenge porn, estorsione, diffamazione e licenziamento. L’ennesima vittima colpita: è stato applicato l’art. 612ter, ma è abbastanza?

Il caso

L’ex partner ha ottenuto, dopo aver pagato un risarcimento, la condanna ad un solo anno di lavori socialmente utili, al termine dei quali potrebbe essere prosciolto. È colpevole di aver inoltrato senza il consenso dell’allora 20enne foto e frame ricevuti in situazioni di sexting sul gruppo WhatsApp del calcetto, resi virali nell’immediato.

In un colloquio richiesto dalla ragazza per ottenere la rimozione dei contenuti che dovevano ovviamente restare privati, non solo si è rifiutato, ma ha anche giustificato le sue azioni con la natura non romantica della relazione. La difesa afferma che non ci sia dolo.

Dichiarazioni per il papà di un’alunna e amico del ragazzo: “Se si inviano certi video, si deve mettere in conto che qualcuno li divulghi” dice e continua “Non potevo credere che una maestra facesse certe cose”.

Sua moglie è invece responsabile delle minacce ricevute dalla docente affinché non denunciasse ma, siccome la denuncia è stata fatta, la donna ha messo la dirigente dell’asilo al corrente, non mancando di esporre ancora una volta tutto il materiale.

Dal canto suo, la dirigente è intervenuta optando per la pubblica umiliazione della ragazza davanti a colleghi, genitori e personale, annunciando con crudezza i motivi del licenziamento, almeno “non troverà lavoro manco per pulire i cessi in stazione”.

Le due sono ora processate per diffamazione ed entrambe devono un risarcimento alla maestra.

Pornografia non consensuale

Innanzitutto, ciò che la ragazza ha subito è comunemente denotato come revenge porn ed è così chiamato perché nella quasi totalità dei casi è compiuto da un partner di sesso maschile che, per ripicca, diffonde immagini e video intimi del/la partner. Gli esperti preferiscono parlare però di pornografia non consensuale: il termine revenge porn ha di per sé un’accezione colpevolizzante verso la vittima poiché implica che questa abbia innescato la vendetta con un suo comportamento errato (al link, l’associazione Bossy definisce il victim blaming, utile per comprendere la portata del fenomeno). È però di deliberata violenza e negazione delle volontà di chi subisce.

Di fatto, ci sono varie tipologie di abuso sessuale digitale, che possono intrecciarsi più o meno con le dinamiche “analogiche”:

  • Hacking dei cloud e dei dispositivi, come successo a numerose celebrities, personaggi politici (deputata Sarti) o pubblici (l’ultima di una lunga lista, Guendalina Tavassi);
  • Furto e pirateria di contenuti creati per siti di “patronato” digitale a pagamento (OnlyFans, Patreon);
  • Insulti e aggressioni sui canali social in risposta a post e commenti;
  • Scatti e riprese eseguite con telecamere nascoste in momenti di intimità o che inquadrano all’insaputa parti del corpo con fini pornografici (a volte vengono addirittura filmati gli stupri);
  • Richiesta di fotografie personali sui social e costanti pressioni e minacce, specialmente subite da minorenni;
  • Pubblicazione e vendita dei contenuti citati nei punti precedenti su gruppi e forum dedicati, spesso corredati di profili social e informazioni sensibili delle vittime.

A questo elenco infernale si aggiungono le creazioni di applicazioni che utilizzano l’intelligenza artificiale delle reti neurali come DeepNude (oggi chiusa per questioni etiche) e FakeApp. Non è nemmeno necessario che vengano documentati i comportamenti (sessuali o non) delle vittime: con poche ore di esercizio sul programma si possono ottenere realistiche immagini di nudo a partire da comuni fotografie rubate da Instagram o addirittura l’inserimento del volto desiderato in un sex tape.

I dati e le conseguenze

L’espressione digitalizzata di ogni aspetto della vita – inclusa la sessualità, è naturale ed è comunque inevitabile, specialmente ora che è stata accelerata dalla situazione di pandemia globale. Si stima che fino al 20% dei nativi digitali utilizzi metodi multimediali per approcciarsi all’affettività, ma anche per contatti di tipo erotico. Molti adolescenti ritengono normale filmarsi durante atti sessuali. Tra gli adulti e i Millenials è invece una pratica ancora più diffusa: circa il 37,5%, secondo Statista.

Il problema è che, potenzialmente, dopo una qualunque giornata di scuola o di lavoro chiunque(1 persona su 10, secondo uno studio USA del 2019) – può essere oggetto di simili circostanze perché purtroppo i mezzi e la facile reperibilità del materiale in aggiunta alla (quasi) totale assenza di conseguenze per chi esegue upload di dati non consensuali genera una combinazione spesso letale. La Polizia Postale stima che il ritmo dei casi di revenge porn ammonti a due al giorno, per un totale di 1083 indagini in corso a Novembre 2020. Nel 90% dei casi si tratta di vittime donne, gran parte del 10% rimanente è parte della comunità LGBTQ+.

Non sono però disponibili dati completi e certi. Risulta quasi banale specificarlo, ma è una dinamica persistente: non tutti gli abusi vengono denunciati a causa della mancanza di supporto, della paura delle terribili conseguenze, dello stigma sociale del dover essere giudicata per aver realizzato materiale esplicito o aver perso il controllo dei propri contenuti online.

Le ricerche in ambito psico-sociale dimostrano che chi perpetra tali azioni ha una concezione totalmente oggettivante dei bersagli: non le considera persone bensì strumenti interscambiabili con altri simili, attraenti solo nel momento in cui possono essere controllati e puniti in base alla loro capacità di soddisfare i propri bisogni. Appropriandosi di tutto ciò che appartiene alla vittima, ovvero la sua identità e la sua soggettività, non si fa altro che negarle l’umanità. Una volta che si è compiuto questo passo, tutto è legittimato. Già dagli anni ‘80 l’avvocata e attivista MacKinnon afferma che le donne vivono nell’oggettivazione sessuale come i pesci nell’acqua”.

Amnesty International, in un’indagine del 2017, riferisce che il rapporto delle donne con Internet e con le relazioni in generale venga affrontato con ansia e perdita di autostima nel 67% dei casi e questo quando è causato “solo” da molestie e abusi sul web di gravità “minore”.  Le conseguenze sono devastanti sia sul piano psichico-individuale, sia sul piano socio-lavorativo, esattamente come una violenza sessuale fisica: alienazione e depersonalizzazione, assieme a sindrome da stress post-traumatico, disturbi alimentari e tossicodipendenza, depressione sono estremamente comuni. La pornografia non consensuale causa però anche la perdita del lavoro e l’emarginazione sociale, proprio come dimostrato nel caso della maestra torinese. Inoltre, è tristemente noto che il 52% delle vittime considera il suicidio e la percentuale cresce nei casi che coinvolgono minori.

L’Associazione no profit di sostegno legale alle vittime PermessoNegato stila report (l’ultimo è proprio di Novembre) nei quali illustra come il fenomeno della pornografia diffamatoria su triplichi di quadrimestre in quadrimestre. La mancata collaborazione dei portali e delle piattaforme che ospitano i contenuti privati violati è un altro grave problema molto ben evidenziato. In molti casi, non c’è alcun interesse a risolvere le falle di privacy, quasi si incentivasse il caricamento di certi video e foto. Attualmente sono sotto indagine i colossi Telegram e Pornhub. Altri social stanno gradualmente modificando le condizioni di utilizzo e le policy.

L’approvazione dell’articolo 612ter del Codice Penale e la situazione attuale

In Italia è stato eclatante il caso di Tiziana Cantone nel 2016, suicidatasi perché, avendo richiesto il diritto all’oblio in seguito alle denunce effettuate un anno prima per revenge porn, veniva ancora perseguitata. Il governo ha finalmente deciso di prendere provvedimenti, nonostante fosse in ritardo rispetto ad altri Stati. Dopo il successo della petizione di #IntimitàViolata che in una settimana raccoglie 110.000 firme è un lungo lavoro di molte campagne di sensibilizzazione, il 4 agosto 2019 è stato approvato l’articolo 612ter del Codice Penale, che andrebbe a colmare proprio le lacune legislative del pacchetto Codice Rosso, una raccolta di leggi che tratta la violenza di genere. La nuova normativa tutelerebbe maggiormente le vittime, considerando reato la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”; darebbe anche maggiore rilievo al legame di relazione (corrente o terminata) e favorirebbe ancor più le vittime in condizioni di disparità fisica  e/o condizione di fragilità, come la gravidanza. A più di un anno dalla sua entrata in vigore, risulta evidente dall’approfondita analisi effettuata da Leonardo Tamborini, procuratore presso il tribunale per i minorenni di Trieste, e Margherita Simicich, dottore in giurisprudenza (disponibile al seguente link), che la nuova norma è anacronistica rispetto ai metodi di diffusione in costante ed esponenziale espansione e che risente di lacune dovute sia al problema di rintracciare il “divulgatore 0”, sia ad altre clausole che entrano in conflitto tra loro.

L’Italia è un Paese nel quale durante la giornata per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne 2020 viene trasmesso su un canale pubblico (che ricordo essere pagato dai contribuenti, quindi dalle donne lavoratrici anche) un tutorial su come apparire sensuali mentre si svolgono mansioni tipicamente relegate appunto alle donne. Dopo due settimane le scuse della conduttrice.

Abbiamo a portata di mano una quantità di mezzi e contenuti che cresce esponenzialmente di giorno in giorno: possiamo continuare a utilizzarli in modo irresponsabile e non etico o agire con coscienza. Attuare politiche sociali e progetti educativi, oltre a rendere il Codice Penale una tutela a trecentosessanta gradi per le vittime, sono urgenze da affrontare immediatamente per prevenire e contrastare l’avanzata di tali violenze. Il web è già parte integrante e inscindibile della “vita vera”.