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Economia, StartUp e Fintech

Intervista a Federico Masi, co-fondatore della start up FinTech FLOWPAY

Il pagamento delle fatture in ritardo è un’abitudine molto diffusa a livello nazionale e non solo. I pagamenti in ritardo si trasformano in costi che non riguardano solo le imprese ma si trasferiscono al settore bancario per via dei rapporti che ci sono tra imprese e banche. Flowpay è una start up che nasce con l’obiettivo di porre rimedio a questo problema automatizzando il pagamento delle fatture elettroniche con l’uso dell’open banking, facilitando il rapporto tra le controparti.

 

Come è nata Flowpay?

 

Flowpay nasce a ottobre 2019 dall’incontro tra me, che venivo dal mondo start up e conoscevo molto bene l’integrazione bancaria e i pagamenti, Edoardo Tommasi, Lorenzo Rossi e Tiziano Pacciani di Banco Digitale che si occupavano di soluzioni blockchain e DLT. Ci siamo trovati a una fiera di matching business to business organizzata da Banca Intesa. Io avevo la necessità di creare un metodo di riscossione che rendesse più certi gli incassi di fatture B2B.

 

Questa necessità è sorta in seguito a una tua esperienza diretta?

 

Sì ed oltre alla mia esperienza studiando il mercato di riferimento ho potuto apprendere che, attualmente, il 40% delle fatture che sono in pagamento scadono senza essere pagate. In Italia il problema è particolarmente rilevante perché da una parte è quasi normalizzato il pagamento delle fatture in ritardo e la presenza di molte PMI si traduce in un fabbisogno di liquidità più urgente dal momento che le piccole imprese hanno meno capacità a finanziarsi; tutto ciò crea un problema notevole per l’economia. Inizialmente l’idea che abbiamo avuto era creare una fattura programmabile come se fosse uno smart contract, ed è da qui che nasce Flowpay che successivamente si evolve in un istituto di pagamento. Siamo la prima start up ad essere autorizzata dalla Banca d’Italia a operare come PISP e AISP, l’autorizzazione è giunta a febbraio.

 

Cosa sono queste due tecnologie?

 

La normativa sui pagamenti europei ha introdotto una nuova organizzazione chiamata TPP, third party providers. Alla base c’è un soggetto che si interpone tra banche, o altri operatori finanziari tradizionali, e l’utente, che è autorizzato ad effettuare alcune operazioni attraverso la tecnologia o l’interfaccia offerta dalla terza parte, ossia permettere di mediare le operazioni di informazione (visualizzazione degli estratti conto o di pagamenti) da un utente ad un certo numero di banche, accorciando così la distanza finanziaria tra utente e banca. Le banche, a loro volta, sono obbligate ad esporre questi servizi via API, permettendo in questo modo a terze parti come Flowpay di poter visualizzare tutti i conti di un cliente operando per conto suo, rendendo più comoda la gestione di diversi conti e i pagamenti. Dato che il problema su cui ci siamo concentrati è l’incasso delle fatture, Flowpay utilizza un sistema, il primo di questo tipo, di request-to-pay open banking; dunque, un’azienda che deve ricevere un pagamento può condividere un link con la fattura che deve essere pagata dal cliente che a sua volta può procedere al pagamento con approvazione tramite OTP (One time password). Il pagamento può essere istantaneo, oppure creato oggi per domani con bonifico ordinario, o ancora ordinato oggi per un pagamento a 30 giorni. La nostra value proposition è questa; il consenso al pagamento viene inizializzato oggi dal cliente che deve pagare il fornitore anche se il pagamento effettivo è differito (a 30 o 60 giorni), Flowpay fa da fluidificante della relazione commerciale.

 

Così il recupero crediti è più agile?

 

Flowpay mitiga il rischio di dover dedicare tempo eccessivo al recupero crediti. Chi si occupa di recupero crediti può integrare la nostra API per avere un sistema di informazione maggiore perché l’azienda che implementa il nostro sistema può inviare un link al cliente e chiedere di essere pagata attraverso questo link in uno step, senza dover perdere tempo nel recuperare l’informazione della fattura, il destinatario del pagamento, l’IBAN.

 

Come è accessibile il servizio?

 

Il servizio è offerto tramite una piattaforma integrabile via API quindi è rivolta a molti soggetti come chi si occupa di commercio B2B, chi si occupa di Invoice Trading, finanza alternativa come factoring/reverse factoring o instant lending, chi si occupa di recupero crediti, ma offriamo anche una interfaccia utente per le piccole e micro realtà. Per questo abbiamo integrato i gestionali o i provider di fatturazione elettronica come fattura in cloud, Aruba e MyFoglio.

 

Quali sono i costi?

 

L’iscrizione a Flowpay è gratuita. I pagamenti sono anch’essi gratuiti mentre sugli incassi richiediamo lo 0,03%. La concorrenza, non Open Banking, ha prezzi molto più alti se pensiamo alle commissioni applicate da Stripe, PayPal.

 

Avete pensato a soluzioni per i crediti delle imprese verso la Pubblica Amministrazione?

 

La PA non paga con bonifico ma con mandato, ricorrendo ad una procedura autorizzativa per cui il dirigente preposto alla tesoreria all’interno di un ente pubblico dà mandato alla banca tesoriera di pagare. Allo stato attuale la nostra soluzione non è applicabile. Ho parlato con un hedge fund che ha svolto diverse operazioni su crediti scaduti o crediti in bonis di lungo termine e per loro il fatto che la PA paghi molto in ritardo non è altro che un vantaggio, perché riescono a raccogliere una massa di crediti dello Stato che sono sicuramente esigibili, anche se molto in ritardo, ma ciò crea una situazione molto sfavorevole per le imprese. Stiamo parlando con soggetti istituzionali per trovare una soluzione per le fatture verso la PA.

Ho letto che offrite anche un servizio di credit scoring?

Lo implementeremo in futuro, abbiamo ancora bisogno di dati per istruire con Machine Learning il nostro motore di credit scoring. In futuro, avendo indicazione di ogni soggetto circa le sue attività commerciali, attive e passive, noi riusciremo a mappare e dedurre quali saranno i comportamenti di pagamento dei vari soggetti che appartengono alla rete del nostro utente. L’obiettivo è offrire un payment scoring delle aziende per consigliare ai nostri utenti quali rapporti sono più profittevoli, fino ad arrivare a predire quando conviene ai nostri utenti chiedere l’incasso in base al comportamento passato del cliente/fornitore. Questo permetterà di pianificare e prendere migliori decisioni di allocazione finanziaria di breve termine.

 

Quale tecnologia utilizza Flowpay?

 

Flowpay nasce come una rete distribuita, ossia con la possibilità di installare nodi di dati all’interno di un certo numero di istituti finanziari, e non per creare una rete interbancaria, perché i clienti, di fatto, rimangono clienti diretti delle banche, per poi condividere questo patrimonio informativo con tutte le banche che avessero aderito e dare quindi credibilità e autorevolezza alla rete Flowpay. Questo primo passo con le banche non è andato come sperato perché le banche temono che possiamo sottrarre loro clienti, timore non fondato perché ci appoggiamo alle banche per il nostro lavoro, non ci occuperemo mai di raccolta del risparmio ma anzi la nostra collaborazione può portare ai nostri partner risultati più proficui e nuovi clienti che sono alla ricerca di servizi più efficienti. Si iniziano però a vedere alcuni passi positivi verso la nascita di alcune partnership.

 

Che tipo di difficoltà avete riscontrato dalla vostra nascita ad oggi? Avete ricevuto supporto dallo Stato se è stato richiesto?

 

Per adesso non abbiamo ricevuto aiuti dallo Stato ad eccezione del supporto avuto da Banca D’Italia che ha compreso molto bene e ci ha aiutato a creare un Unicum nel panorama FinTech italiano. Diciamo piuttosto che abbiamo scontato, e stiamo scontando, il prezzo di aver creato la nostra iniziativa in Italia, che nonostante diversi proclami mi sentirei di dire che non è il posto giusto per aprire una startup. Per diversi motivi:

 

  1. Il livello di richieste, soprattutto di Compliance Normativa, in Italia è forse il più alto di Europa ed in un contesto di Single Europe Payment Area (SEPA) vede le aziende italiane soccombere, per questioni di adeguamenti normativi, alla competizione con operatori esteri che possono operare in tutta Europa, compresa l’Italia, con un quadro normativo più lasso;
  2. Non esistono strumenti di capitale (equity o debito agevolato) adeguati a realtà come la nostra che devono competere da subito almeno su base europea. I fondi di Venture Capital con cui abbiamo parlato sono in gran parte esteri e tutti hanno storto la bocca quando hanno compreso che eravamo italiani e chiesto anche esplicitamente di rivedere la localizzazione della società su altri territori;
  3. Gli incumbent (banche e altri attori istituzionali) invece di aprirsi all’Open Innovation sono restii alla collaborazione anche perché non esistono meccanismi di incentivo all’innovazione.

Speriamo che questo secondo tentativo di finanziamento a Invitalia possa dare esito positivo, così da poter dire che lo Stato ci ha aiutato.

 

Un consiglio per i giovani ragazzi che vorrebbero avviare una loro attività?

 

  1. Mio malgrado: non fatelo in Italia;
  2. Studiate bene il mercato prima di fare qualsiasi cosa, studiate la competizione e trovate qualche “sponsor” o “Early adopter” prima di partire a fare;
  3. Chiunque sia disposto a finanziare una start up non ha né voglia né tempo di comprendere nei dettagli il tuo business, deve vedere che tu lo sai fare, quindi contratti e fatturato.
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Economia, StartUp e Fintech

La tecnologia in finanza, un’evoluzione in corso

Ci sono due aspetti complessi e delicati del mondo finanziario che possono essere supportati dall’innovazione tecnologica: la regolamentazione e la supervisione di questo settore.

Il settore finanziario è il più regolamentato e controllato dalle autorità preposte, e se pensiamo all’ultima crisi finanziaria globale ne possiamo anche comprendere il perché. I principali obiettivi della regolamentazione del settore finanziario sono assicurare stabilità, trasparenza ed efficienza mentre la supervisione è molto importante per verificare che le varie norme vengano rispettate.

La complessità della normativa che regola l’attività delle varie istituzioni finanziarie e il suo continuo aggiornamento comporta costi rilevanti per tali imprese e questo è uno dei motivi per cui è in corso lo sviluppo di tecnologie innovative che possano essere di supporto nell’implementazione, adeguamento e rispetto delle norme; questa declinazione del FinTech (Financial Technology) ossia tecnologia a supporto della finanza, viene spesso definita RegTech (Regulation Technology).

L’altro ambito che ha incontrato il supporto della tecnologia è la supervisione del settore finanziario, dando via al SupTech (Supervisory Technology). Come per la RegTech, la risorsa più importante è rappresentata dai dati grazie ai quali le autorità di vigilanza possono efficientare le loro varie attività di supervisione riducendo tempo e costi.

L’universo di start-up

L’azienda di consulenza e revisione Deloitte ha condotto recentemente uno studio individuando 413 principali aziende dello scenario del RegTech suddividendole in base all’area specifica per la quale offrono i loro servizi innovativi: reporting normativo, gestione del rischio (risk management) che oggi è ritenuto essenziale per scongiurare crisi o affrontarne una imminente, gestione e controllo delle identità ossia facilitare una adeguata valutazione e verifica dell’identità dei clienti oltre a controlli anti-riciclaggio e anti-frode, conformità alle norme (compliance) e controllo delle transazioni.

Tra le aziende leader in questo nuovo ambito figura Corlytics per l’area risk management, che offre servizi a una varietà di clienti quali banche globali e regionali, compagnie di assicurazione, enti regolatori. Corlytics raccoglie, classifica, interroga e analizza automaticamente le norme delle autorità di regolamentazione di tutto il mondo per offrire ai suoi clienti una gestione basata sui Big data.

Il Financial Conduct Authority, l’ente di regolamentazione finanziario inglese, in un articolo sul sito ufficiale parla di circa 1000 start-up attualmente attive nel RegTech e prevede un valore di mercato in crescita, che potrebbe raggiungere €55 miliardi entro il 2025, considerando che l’emergenza sanitaria ha accelerato il processo di digitalizzazione e automazione.

Autorità nel mondo

Tra le prime autorità che hanno utilizzato queste tecnologie ci sono il FCA inglese, l’ASIC in Australia e la MAS a Singapore. In Europa L’EBA, European Banking Authority, ha avviato lo scorso anno una consultazione rivolta ad istituzioni finanziarie e a fornitori di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, rimandando alla prima metà di questo anno la pubblicazione dei risultati che possono guidare all’utilizzo di soluzioni RegTech.

In Europa la crisi finanziaria e successivamente quella del debito hanno portato alla luce la necessità di una unione anche sul fronte bancario, ritenuta essenziale per completare l’unione economica e monetaria, ed è stata messa in pratica mediante la costituzione dell’Unione Bancaria Europea che si fonda su due pilastri: il Meccanismo di Vigilanza Unico e il Meccanismo di Risoluzione Unico. Un terzo punto è attualmente in discussione e riguarda la creazione di uno schema unico di garanzia dei depositi. Le moderne tecnologie, l’Intelligenza artificiale e il Machine learning sono strumenti imprescindibili che permetterebbero alle autorità di vigilanza di poter gestire ed elaborare la grande quantità di dati e informazioni con cui lavorano ogni giorno.

La tecnologia non solo può migliorare le performance a tutti i livelli, ma potrebbe cambiare completamente alcuni paradigmi e approcci sin qui utilizzati. Ne è un esempio una dimostrazione avvenuta durante un evento in streaming tenuto dall’ente australiano ASIC: un’impresa ha dimostrato il potenziale di un’intelligenza artificiale che potrebbe valutare il grado di solvibilità di un individuo da alcuni tratti comportamentali e caratteriali e ciò permetterebbe di poter concedere credito anche a clienti di cui si hanno pochi dati oppure clienti di paesi emergenti che hanno difficoltà a dimostrare la propria capacità di rimborsare debiti e, di conseguenza, a ottenere un prestito per le loro iniziative imprenditoriali. I dati psicometrici sono stati comparati con dati storici ed è stata rilevata una affidabilità dei dati psicometrici del 91%.

Cooperazione globale

A livello globale emerge un supporto allo sviluppo di nuove tecnologie che vede il coinvolgimento di molte istituzioni ed enti con diverse iniziative, attività di networking/brainstorming e inviti all’azione.

Lo scorso anno la BIS, Banca dei regolamenti internazionali, e la presidenza saudita del G20 con il supporto di altre importanti autorità hanno organizzato una competizione che invitava a trovare soluzioni per le più grandi sfide della regolamentazione e supervisione finanziaria; i 3 vincitori sono stati invitati a mostrare i loro risultati al Singapore Fintech Festival dello scorso novembre.

Più recentemente durante il G20 tenutosi il 7 aprile è stata sottolineata nuovamente l’importanza di dati precisi e tempestivi a disposizione dei policy makers affinché possano prendere decisioni efficienti, soprattutto durante periodi di crisi come quello attuale. Nel comunicato stampa emerge la necessità di cogliere le opportunità offerte dalla tecnologia per stimolare la ripresa e dare avvio a una nuova iniziativa sulla lacuna dei dati (Data gaps iniziative – DGI). Il DGI del G20 è nato nel 2009 in seguito alla crisi finanziaria ed è un insieme di 20 raccomandazioni per il miglioramento dei dati statistici economici e finanziari che possono essere impiegati dai responsabili politici e le autorità di vigilanza.

Le sfide

I benefici dell’utilizzo delle nuove tecnologie sono dunque tanti in termini di efficienza, risparmio di tempo e denaro, maggiore sicurezza, minori rischi, contrasto alla criminalità, inclusione finanziaria ma rimangono alcune sfide: privacy, attacchi informatici, fiducia verso le imprese RegTech che devono trattare dati delicati, sviluppo competenze specifiche, complessità e varietà di scenari potenzialmente di difficile interpretazione per le macchine sono alcuni dei problemi che saranno al centro delle future discussioni dei player del settore.

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Ambiente, società e tecnologia

Bias negli algoritmi: come le macchine apprendono i pregiudizi dagli esseri umani

L’impatto della tecnologia sulle nostre vite sta crescendo rapidamente. Algoritmi di Intelligenza Artificiale vengono quotidianamente applicati in diversi ambiti: in campo medico, nei veicoli a guida autonoma, per determinare se siamo meritevoli di un mutuo o stabilire se ci meritiamo una determinata posizione lavorativa, come accaduto nel caso di IMPACT, uno strumento di valutazione degli insegnanti impiegato a Washington durante l’anno scolastico 2009-10. Secondo uno studio condotto da Oberlo, il numero di aziende che adottano tecniche di Intelligenza Artificiale è cresciuto del 270% negli ultimi 4 anni. Le statistiche di Gartner mostrano come, nel 2019, un’azienda su tre sfrutti l’Intelligenza Artificiale o abbia intenzione di farlo. Risulta quindi evidente quanto questi algoritmi impattino sulle nostre vite, lasciandoci il più delle volte ignari ed impotenti nei loro confronti.

Un errore in un algoritmo potrebbe non sembrarci molto piacevole, ma nemmeno poi così grave: se Netflix ci consiglia un film che non ci piace o se Siri imposta la sveglia ad un orario sbagliato ci troviamo di fronte inezie per cui potremmo chiudere un occhio, viste le innumerevoli facilitazioni che ci offrono. Ma cosa accadrebbe se l’errore riguardasse un algoritmo di guida autonoma? Oppure se venissimo scartati ad un colloquio lavorativo per il sesso, la religione o la razza? 

Anche gli algoritmi sbagliano

L’errore che probabilmente ha fatto più scalpore negli ultimi anni è legato all’algoritmo di software di recruitment utilizzato da Amazon a partire dal 2014. Questo software, come spiegato nell’articolo dell’Ansa, era ritenuto in grado di analizzare i curriculum dei candidati ed automatizzare la procedura di selezione. Tuttavia è emerso come esso penalizzasse le donne, specialmente per le posizioni legate a ruoli più tecnologici. L’errore era dovuto ai dati con cui il modello è stato addestrato: dati reali, contenenti i curricula ricevuti dalla società nei 10 anni precedenti; CV prettamente maschili, data la maggioranza di uomini nel settore tecnologico. Come spiega l’articolo de Il Sole 24 Ore, il modello ha riconosciuto in modo automatico un pattern che delineasse i migliori candidati, inglobando tra le caratteristiche ideali il genere maschile, e incorrendo così in un bias. Un bias è un errore sistematico di giudizio o di interpretazione, che può portare a un errore di valutazione o a formulare un giudizio poco oggettivo. È una forma di distorsione cognitiva causata dal pregiudizio e può influenzare ideologie, opinioni e comportamenti. In informatica, il bias algoritmico è un errore dovuto da assunzioni errate nel processo di apprendimento automatico. Questo errore, ha costretto Amazon a dismettere il software.

Da una ricerca condotta invece nel 2018 da Joy Buolamwini e Timnit Gebru, due ricercatori del MIT e della Stanford University, è emerso che tre programmi di riconoscimento facciale rilasciati sul mercato da importanti aziende tecnologiche incorporavano pregiudizi razziali e di genere. Negli esperimenti condotti dai due ricercatori, è stato rilevato che nel determinare il sesso degli uomini di pelle chiara i tassi d’errore dei programmi di riconoscimento facciale non hanno mai superato lo 0,8% mentre, per le donne con pelle scura, le percentuali salivano al 20% in un programma e ad oltre il 34% negli altri due. Queste stesse tecniche incentrate sull’elaborazione di dati biometrici, utilizzate per cercare di determinare il sesso di qualcuno, possono essere impiegate anche per identificare un individuo e applicate in diversi ambiti, ad esempio per individuare persone sospettate di crimine.

Infatti, un altro caso di bias algoritmico è quello riscontrato in un software denominato COMPAS, affidato diversi anni fa ad alcuni giudici americani per supportarli nel quantificare la pena da imputare ai condannati. Come si legge in un articolo pubblicato su Internazionale, l’algoritmo di Compas incorporava pregiudizi nei confronti degli afroamericani: il dataset utilizzato nella fase di addestramento del software non includeva dati bilanciati nei confronti delle diverse etnie, e di conseguenza gli afroamericani avevano quasi il doppio delle possibilità, rispetto ai bianchi, di essere etichettati come ad alto rischio, anche se poi in futuro non commettevano altri reati.

Problemi e possibili soluzioni

Gli errori precedentemente riportati avvengono poiché addestrando i modelli di Intelligenza Artificiale attraverso le enormi quantità di dati a nostra disposizione, l’AI incorpora valori e bias intrinsechi della società.

Nonostante l’immaginario comune ci porti a considerare un algoritmo come un processo decisionale perfetto, superiore al ragionamento umano (considerato invece influenzabile e non obiettivo), perché in grado di processare una molteplicità di dati in modo imparziale, nella realtà non è così. Come spiegato nella guida di Google, gli algoritmi di intelligenza artificiale non sono liberi da bias, in quanto, come accennato prima, il bias è contenuto nei dati con cui i modelli vengono addestrati. In altre parole, i modelli ereditano il bias basato su razza, genere, religione o altre caratteristiche dai dati che vengono forniti loro e, in alcuni casi, possono addirittura enfatizzarlo. In particolare, il bias può essere introdotto in qualsiasi fase della pipeline di apprendimento: a partire dall’adozione di un dataset inadeguato, da un processo di apprendimento errato o addirittura da un’incorretta interpretazione dei risultati. 

L’Algorithmic fairness è un campo di ricerca in crescita che mira a mitigare gli effetti di pregiudizi e discriminazioni ingiustificate sugli individui nell’apprendimento automatico, principalmente incentrato sul formalismo matematico e sulla ricerca di soluzioni per questi formalismi. È un ambito di ricerca interdisciplinare che ha l’obiettivo di creare modelli di apprendimento in grado di effettuare previsioni corrette dal punto di vista di equità e giustizia.

Come riportato nel paper di Ninareh Mehrabi, una prima difficoltà che caratterizza questo ambito di ricerca è la mancanza di una definizione esaustiva e universale di correttezza (fairness): vengono infatti proposte molteplici definizioni a seconda dei diversi contesti politici, religiosi e sociali.

Il bias può manifestarsi infatti nei confronti di diverse minoranze, con specifiche caratteristiche di genere, religione, razza o ideologia; come precedentemente accennato, può essere introdotto da diversi fattori e manifestarsi in diverse fasi della pipeline di apprendimento. A seconda della tipologia di bias e del modo in cui esso si manifesta, lo stato dell’arte propone diverse metriche per la misurazione del bias e tecniche per attenuarlo; ne sono un esempio il toolkit per misurare e mitigare il bias proposto da IBM e gli indicatori di equità proposti da Google.

Lo studio di queste problematiche è all’ordine del giorno e, come evidenziato nel paper di Pessach, i diversi sotto-ambiti di ricerca sono in continua crescita e costituiscono sfide attualmente aperte. L’importanza di ottenere algoritmi equi e corretti è cruciale, e per farlo è necessario rimuovere il bias dalle diverse fasi della pipeline, a partire dalla fase di raccolta dei dati. Ad oggi, sembra più facile rimuovere il bias e rendere eticamente equi gli algoritmi piuttosto che gli esseri umani.

Europa: la proposta di Regolamento Europeo sull’Intelligenza Artificiale

Il 21 aprile 2021 la Commissione europea ha pubblicato la proposta di regolamento sull’approccio europeo all’intelligenza artificiale, un documento in cui vengono valutati i rischi connessi a questo strumento con l’obiettivo di “salvaguardare i valori e i diritti fondamentali dell’UE e la sicurezza degli utenti”.

Secondo la Commissione europea, di fronte al rapido sviluppo tecnologico dell’Intelligenza Artificiale e a un contesto politico globale in cui sempre più paesi stanno investendo massicciamente in questa tecnologia, l’Unione Europea deve agire all’unisono per sfruttare le numerose opportunità offerte dall’AI e al contempo affrontarne le sfide, per promuovere il suo sviluppo senza tralasciare i potenziali rischi che pone per la sicurezza delle persone.

Nella proposta di regolamento europeo sono presenti sia regole di trasparenza applicabili a tutti i sistemi di intelligenza artificiale, sia disposizioni più specifiche per i sistemi ad alto rischio, come ad esempio quelli impiegati per valutare gli studenti e determinare l’accesso a istituzioni di formazione, i sistemi utilizzati per la selezione del personale, per promuovere o licenziare il personale, per assegnare compiti e mansioni, e per valutarne le performances, e i sistemi per valutare l’affidabilità e veridicità delle informazioni fornite da persone fisiche per prevenire o indagare su reati, i quali saranno obbligati a rispettare alcuni requisiti relativi alla loro affidabilità. La proposta di regolamento europeo descrive inoltre alcune pratiche vietate di intelligenza artificiale, quali ad esempio l’impiego di sistemi che utilizzino tecniche subliminali su persone inconsapevoli al fine di influenzarne il comportamento e causare danni fisici o psicologici, la messa in servizio di sistemi di Intelligenza Artificiale da parte di pubbliche autorità o per loro conto che valutino o classifichino l’affidabilità delle persone fisiche sulla base del loro comportamento sociale o di caratteristiche di personalità, attribuendo loro un punteggio sociale che generi in risposta un comportamento sfavorevole sproporzionato rispetto alla gravità del loro comportamento sociale. Viene inoltre vietato l’uso di sistemi di identificazione biometrica remota in tempo reale negli spazi accessibili al pubblico ai fini dell’applicazione della legge, a meno che non ci si trovi nell’eventualità di dover cercare in maniera mirata potenziali vittime di crimini, come i bambini scomparsi, o si debba intervenire per la prevenzione di minacce imminenti come il rischio di un attacco terroristico; l’impiego di tali algoritmi è autorizzato anche per l’identificazione e la localizzazione di un autore di reato o di un sospettato punibile con una pena di almeno tre anni. Per l’uso di tali sistemi di identificazione biometrica, si legge ancora nella proposta, sono comunque previsti una serie di specifici requisiti.

Risulta evidente come le potenzialità dei sistemi di Intelligenza Artificiale siano molteplici, ma allo stesso tempo potenzialmente rischiose ed è incredibile come le macchine riescano ad apprendere e riprodurre il pregiudizio umano, trasformandosi in sistemi non equi ed ingiusti e ritrovandosi ad emulare quella che è la società odierna. Gli studi e le misure adottate per la mitigazione del bias algoritmico si stanno rivelando un ottimo strumento, chissà se che con altrettanti sforzi si riuscirà un giorno a correggere anche il bias umano, risolvendo così il problema alla radice.

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Ambiente, società e tecnologia

La scimmia di Elon Musk gioca a pong con il pensiero grazie a Neuralink

Una scimmietta davanti a un monitor gioca al famoso videogame Pong, è quello che si vede da un video pubblicato dall’azienda di Elon Musk: Neuralink. Non ci sarebbe nulla di strano nel vedere un primate addestrato per giocare a un videogioco, se solo non fosse che lo stava controllando soltanto con il pensiero.

Cos’è e come funziona:

Il protagonista del video diventato virale è Pager, un macaco di 9 anni, scelto dalla compagnia statunitense di neurotecnologie per lo sviluppo di interfacce uomo-macchina per questo esperimento che Musk stesso sul social vocale Clubhouse aveva dichiarato già a febbraio di quest’anno. Nella prima metà del video si vede come il primate, attaccato ad una cannuccia che eroga del frullato di banana, con la mano destra su un joystick, gioca al videogioco Pong, rinominato per l’occasione MindPong. In un secondo momento, terminata la fase di apprendimento, il joystick viene scollegato ma Pager continua tranquillamente a giocare come se nulla fosse successo. Ciò che la fa proseguire senza dover controllare il gioco con la mano, è un dispositivo che le permette di farlo con la mente:  il chip wireless N1 Link, abbreviato “The Link” impiantato nel suo cranio.

Questo chip è un dispositivo di registrazione neurale e di trasmissione dati dotato di 1.024 elettrodi e alla scimmia ne sono stati impiantati due: uno a livello della corteccia motoria di destra e l’altro a sinistra. Nella prima fase di apprendimento, non solo il macaco stava imparando a giocare, ma anche i ricercatori hanno potuto costruire un modello di attività neurale dell’animale a computer. Partendo dal Link che riesce a captare i potenziali d’azione dei neuroni, ovvero la “scossa elettrica” che rilasciano quando vengono attivati da scambi di informazioni, questi vengono aggregati e conteggiati ogni 25 millisecondi per ognuno dei 1.024 elettrodi. Contemporaneamente, sempre ogni 25 millisecondi il chip trasmette i conteggi aggregati via Bluetooth ad un computer in grado di eseguire un software di decodifica apposito: un algoritmo di machine learning che sia in grado di tradurre i segnali elettrici del cervello in segnali digitali e arrivare anche a prevedere le potenziali mosse future dell’animale.

L’esperimento con Pager ha fatto fare dei grossi passi avanti all’azienda, se teniamo conto del fatto che il massimo a cui si era arrivati l’anno scorso con la maialina Gertrude era rilevare i segnali cerebrali quando questa, usando il suo olfatto, rilevava qualcosa di gustoso; ma questo test secondo Musk è solo l’inizio, perché il progetto in sé è molto più ambizioso.

Il vero progetto del CEO visionario

L’esperimento non è stato fine a sè stesso, ma fa parte del processo di studio e sviluppo di questa  tecnologia per aiutare le persone con disturbi neurologici e che hanno subito amputazioni agli arti, attraverso un impianto neurale wireless poco invasivo che permetterebbe loro di riavere alcune abilità, anche motorie.

L’idea sarebbe quella di collegare The Link , precedentemente impiantato nel cranio del paziente e delle dimensioni di una monetina, ai dispositivi d’uso quotidiano come gli smartphone per permettergli di utilizzarlo, oppure ad un arto bionico riuscendo a muoverlo così come muoviamo i nostri arti funzionanti.

Aiutare i pazienti paralizzati, che hanno subito amputazioni ma anche con malattie neurodegenerative come il Parkinson, è il risultato ideale che se Musk riuscisse a raggiungere potrebbe portare ad una vera rivoluzione; come lui stesso ha affermato: “può effettivamente risolvere problemi come ictus, paralisi, cecità, perdita dell’udito, disturbo dello spettro autistico, Parkinson e patologie come ansia e depressione, ma molte persone non se ne rendono conto. Tutti i sensi – vista, udito, olfatto -, ma anche sensazioni di vario tipo come il dolore sono segnali inviati dai neuroni al cervello. Correggendo questi segnali si può correggere tutto

Le sue mire però non finiscono qui: il suo piano sarebbe non solo di portare questa tecnologia a malati di questo tipo, ma arrivare anche alle persone sane, facendola diventare un prodotto di massa in modo tale che impiantata sulla maggior parte delle persone, ci renda in grado di difenderci dall’avanzata dell’intelligenza artificiale che a suo avviso potrebbe, in un futuro non troppo lontano, superare completamente l’essere umano nella folle corsa verso il progresso.

Nonostante sembri fantascienza, non è una novità totale

L’idea di Elon Musk di registrare segnali cerebrali e trasmetterli ad un computer può sembrare innovativa, ma altri neuroscienziati, hanno provato a portare avanti questi studi ben prima dell’imprenditore sudafricano. Già nel 1963, José Manuel Rodriguez Delgado creò un dispositivo predecessore delle attuali interfacce uomo-macchina impiantando un elettrodo radiocomandato nel nucleo caudato del cervello di un toro e fermando la corsa dell’animale premendo un pulsante di un trasmettitore remoto. Uno dei primi esperimenti con un chip è stato portato avanti dal neuroscienziato Eberhard Fetz che nel 1969 effettuò uno studio in cui delle scimmie furono addestrate ad attivare un segnale elettrico nel loro cervello per controllare l’attività di un singolo neurone, appositamente registrata da un microelettrodo metallico.

Un’altra vicenda degna di nota in questo ambito è quella del giovane Neil Harbisson che nel 2004 è diventato la prima persona al mondo ad indossare un’“antenna” che gli permette di “sentire i colori” a seconda della frequenza espressa, nonostante la sua acromatopsia (impossibilità totale di vedere i colori a livello cerebrale), diventando il primo uomo-cyborg riconosciuto. Nel 2010 ha inoltre fondato la Cyborg Foundation, un’organizzazione internazionale per aiutare gli umani a “diventare” cyborg; lui probabilmente si direbbe d’accordo con i progetti di Neuralink.

Prospettive future e problemi: gli ostacoli e le opportunità per Neuralink

Nonostante l’idea di base di impiantare un chip nel cervello, sia già realtà in ambito biomedico, la volontà di Musk di spingersi oltre potrebbe presentare dei problemi.

In primis il fatto che il chip tenderebbe a deteriorarsi nel cranio provocando delle potenziali infezioni e successivamente il danneggiamento dei neuroni a cui The Link stesso è collegato, nonostante l’obiettivo sia farlo durare “per decenni”. In secondo luogo il prezzo potrebbe non essere accessibile a chiunque, anzi,  a detta sua verrebbe a costare “fino a qualche migliaio di dollari”, rendendolo un lusso di pochissimi e aumentando il divario tra ricchi e poveri andando a creare una classe elitaria con dei “superpoteri” che altri potrebbero solo sognare. Infine anche chi se lo può permettere, potrebbe avere dei seri dubbi nel farsi impiantare un apparecchio nel cranio laddove questa necessità non fosse impellente, con la consapevolezza che, come tutte le tecnologie, anche The Link potrebbe essere hackerato e a quel punto gli effetti catastrofici si potrebbero solo immaginare.

Tuttavia, adesso che The Link ha ricevuto tutte le autorizzazioni dalla FDA (Food and Drug Administration) la sperimentazione sugli esseri umani potrebbe essere più vicina che mai: con uno dei suoi tweet il CEO ha annunciato i primi test entro la fine di questo 2021, non ci resta che attendere, sperando di non diventare degli ostaggi dell’AI ancora prima di iniziare.

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Ambiente, società e tecnologia

Apprendere tramite la realtà virtuale: la nuova frontiera dell’istruzione

Indossare dei visori in aula per vedere comparire sul banco una cellula, una molecola o un pianeta, fare un esperimento di elettronica e maneggiare dei materiali pericolosi in totale sicurezza: queste sono solo alcune delle attività che si possono fare con la realtà virtuale per imparare meglio arrivando a “toccare con mano” e visualizzare oggetti normalmente impossibili. La missione di aziende come Google è portare tutto ciò quotidianamente nelle aule di scuole e università con l’obiettivo di rivoluzionare per sempre il mondo dell’apprendimento grazie a questa tecnologia.

Cosa sono realtà virtuale, realtà aumentata e le differenze

La realtà aumentata, augmented reality in inglese, è una tecnologia che permette di aggiungere le informazioni nel nostro campo visivo, andando ad arricchirlo di elementi nuovi grazie alla fotocamera dei dispositivi mobili sui quali sono stati installati appositi programmi. Il principio è quello dell’overlay ovvero la sovrapposizione di informazioni aggiuntive, definite ologrammi, a quelle già esistenti.

La realtà virtuale, virtual reality, riesce ad andare oltre: è una tecnologia immersiva che grazie ad un apposito visore, permette di immergersi in una realtà simulata alla perfezione, costruita in tre dimensioni e a 360 gradi che coinvolge non solo gli occhi ma anche l’udito e la propriocezione. Questi strumenti riescono a percepire i nostri movimenti, ricreando la scena come se fossimo nel mondo naturale: se si alza un braccio nel mondo esterno, si alzerà il corrispettivo ricreato nella simulazione, facendo credere al nostro cervello di trovarsi proprio lì; perché nonostante la consapevolezza di fondo di aver indosso un visore, la sensazione di embodiment crea un inganno per il cervello che si sente completamente presente.  A differenza della realtà aumentata, che si limita ad apparire in sovrapposizione, rimanendo ben distinguibile dal resto, la VR permette di immergersi totalmente nella scena rendendo difficile discernere ciò che è vero da ciò che è stato ricreato.

Esiste inoltre un terzo tipo, di realtà virtuale/aumentata, la cosiddetta mixed reality in cui AR e VR vengono unite: gli ologrammi già presenti nell’AR superano la staticità permettendo l’interazione come accade nella VR, rimanendo però nettamente distinguibili dalla realtà e perciò non è definibile immersiva.

AR/VR e ambiti di applicazione

Le realtà estese, citando una macro-categoria per racchiuderle tutte, hanno fatto il loro debutto nel mondo dell’entertaiment dando vita a videogiochi ultraimmersivi, ma negli ultimi anni è stato possibile vedere come possono essere applicate ad un’infinità di ambiti.

Alcuni sono più ovvi di altri, come quello industriale, dove diventerebbe possibile, semplicemente inquadrando un macchinario sconosciuto, visualizzare tutte le istruzioni  per il funzionamento sottoforma di animazioni dettagliate. Allo stesso modo può essere utilizzata per le training di addetti alla manutenzione di sistemi pericolosi come i tralicci dell’alta tensione dove sbagliare può costare la vita ed è anche molto facile per una persona alle prime armi; come sostiene Lorenzo Cappannari di AnotheReality: “se prima lo si insegna in modo altrettanto realistico ma totalmente sicuro in una simulazione, si può sbagliare tutte le volte che si vuole senza problemi e sbagliando, imparare”.

Grazie alle realtà estese è realmente possibile continuare a sbagliare senza nessuna conseguenza, caratteristica utile a professionisti come il pilota di velivoli, ma anche il chirurgo. Proprio a supporto di quest’ultimo, è il progetto della startup italiana Artiness che ha l’obiettivo di portare la realtà aumentata in sala operatoria per rendere gli interventi delicati più sicuri.

Realtà virtuale solo per settori “di rischio”?

L’industria e l’healthcare tuttavia non sono gli unici settori coinvolti, perché questo tipo di tecnologia ben si sposa con un ambito fondamentale: la formazione. In questi anni si sta fortemente sperimentando la VR per la formazione del personale delle aziende che invece di dover organizzare dei continui e dispendiosi corsi di formazione in presenza possono creare una simulazione ad hoc per il tipo di mansione che deve essere svolta, e presentarla ad ogni nuovo impiegato che, dotato di un visore, può imparare efficacemente la procedura, alla quale è stata aggiunta la componente di gamification.

Realtà estesa e apprendimento: ecco perché è così efficace

Il forte potenziale non si trova solo in ambiente lavorativo, ma anche in quello scolastico con bambini e ragazzi. La tecnologia evolve di giorno in giorno, ma nelle aule spesso rimane ancora la lavagna con il gesso quando invece sarebbero disponibili gli strumenti per rendere l’apprendimento non solo più interessante ma anche molto più efficace.

Per spiegare il perché dell’efficacia, è necessario fare riferimento alle neuroscienze: le ultime scoperte sul cervello spiegano che per apprendere meglio e quindi ricordare più a lungo comprendendo a livello profondo quello che si sta studiando, il modo migliore è fare. Il cono dell’apprendimento è un grafico che fa notare come dopo due settimane si ricorda solo il 10% di quanto si è letto, ma ben il 90% di quello che si è fatto rendendo l’apprendimento attivo.

In aggiunta, i mondi creati da AR e VR rendono l’esperienza di apprendimento coinvolgente e quindi emozionante, parola chiave in contesto di memoria in quanto, come dimostrano molteplici studi, più il materiale da imparare si lega alle emozioni e maggiore sarà il ricordo, perché concepito come rilevante per il cervello. Proprio per la loro capacità di generare e modificare emozioni anche permanentemente, sono considerate le prime tecnologie “trasformative”.

La nuova frontiera scolastica: i visori per tutti

Con le dovute premesse diventa evidente come la mixed reality possa essere rivoluzionaria per scuole e università. Già a partire dalle elementari, fino alla formazione superiore, le realtà estese possono aiutare gli insegnanti a spiegare concetti complessi e visualizzare oggetti fisici difficilmente comprensibili dalle immagini appiattite e poco realistiche dei libri; permettendo così di studiare in modo coinvolgente tutti gli argomenti: dalla biologia all’arte, dalla fisica alla chimica fino all’informatica e le lingue.  Si avrà dunque l’opportunità di capire a fondo teorie che sarebbero altrimenti estremamente nozionistiche, rendendole invece fortemente esperienziali.

Aziende come Google in partnership con Labster, ma anche Lenovo, hanno compreso a pieno la potenzialità e stanno lavorando a delle soluzioni per estendere quando più possibile l’utilizzo di queste tecnologie nella didattica di tutti i giorni. L’azienda californiana con il progetto “for education” ha trovato una possibile soluzione in continua evoluzione per portare la mixed reality nelle scuole, senza costi eccessivi: le Cardboard, delle custodie di materiale non fragile come cartone o plastica in cui inserire uno smartphone e utilizzarlo come prototipo di visore. La proposta è avvalorata dal fatto che esistono già delle applicazioni installabili sui devices che accompagnano gli studenti nella didattica interattiva. Nonostante Google stessa abbia ammesso che sia un progetto ancora parecchio acerbo, la prima scintilla è stata accesa e le potenzialità di sviluppo futuro sono molte, ciò che va ridimensionato è il sistema d’istruzione.

La strada potrebbe essere lunga

La scuola deve fare ancora molti progressi su questo fronte e gli ostacoli da superare per portare la trasformazione digitale in tutti gli istituti d’Italia non sono sicuramente pochi: a partire dai fondi per le tecnologie stesse e la formazione degli insegnanti, come sostiene Stefania Strignano, dirigente dell’Istituto Ungaretti di Melzo, una delle prime scuola statali italiane che ha rivoluzionato il metodo d’insegnamento tramite laboratori creativi, utilizzo di strumenti digitali e didattica personalizzata: “in primo luogo c’è da investire sul capitale umano ovvero i professori che per primi devono interiorizzare il cambiamento e saperlo portare agli alunni”.

Il lavoro da fare è parecchio ma il potenziale ancora di più e le ricerche scientifiche oltre che i risultati ottenuti da scuole pioniere, lo dimostrano. Vale la pena approfondire lasciandosi immergere nella trasformazione digitale.

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Entertainment, videogame e contenuti

Discord: non solo gamers

Discord è un’applicazione nata nel 2015 come piattaforma di comunicazione per gamers. Nel corso degli anni ha visto la nascita di vere e proprie community di persone che hanno realizzato i loro server per parlare dei loro più svariati interessi ed ospita ad oggi oltre 100 milioni di utenti in tutto il mondo.

Storia, evoluzione e funzionalità

Discord è stata lanciata da Jason Citron (CEO) e Stan Vishnevskiy (CTO) per facilitare la comunicazione tra i gamers. Come spiegato negli articoli de La Stampa e Protocol, la maggior parte dei giochi collaborativi online offre un sistema di comunicazione mal organizzato, per cui spesso i gamers si riducevano a cercare giocatori su piattaforme esterne, ad esempio nei forum di Reddit. L’idea di Discord è proprio quella di offrire dei server dedicati, specifici per i diversi giochi, dove i giocatori possono incontrarsi, discutere e condividere contenuti. La piattaforma offre un’interfaccia semplice ed intuitiva con overlay di gioco e diverse funzionalità per gestire le tattiche di squadra in tempo reale. Con questi accorgimenti riesce a distinguersi dalle principali alternative: Skype e TeamSpeak, considerate di difficile utilizzo in-game, a causa delle loro interfacce poco user-friendly.

Discord viene definita dagli sviluppatori come una piattaforma che “rende più facile chiacchierare ogni giorno e ritrovarsi più spesso”. Probabilmente questa definizione risulta un po’ limitante viste le numerose opportunità offerte. Se vogliamo darne una definizione più tecnica, Discord è una piattaforma di VoIP (tecnologia che permette di sostenere una conversazione sfruttando una rete internet), messaggistica istantanea e distribuzione digitale.

Da queste definizioni non sembra diversa da tante altre piattaforme ed applicazioni. Una caratteristica che, invece, la differenzia dalla concorrenza è la possibilità di creare un tuo server da organizzare secondo le tue esigenze e da condividere con amici o colleghi. All’interno dei server potrai trovare canali testuali e chat vocali, organizzate per argomenti. Potrai entrare ed uscire dai canali in qualsiasi momento della giornata, unirti alle conversazioni ed accedere alle chat in ogni istante. L’innovazione portata da questa modalità è che, a differenza delle concorrenti Google Meet e Zoom, l’accesso ai server non necessita un link di invito, ma è possibile saltare da una stanza all’altra con un semplice click.

Discord non si dimentica nemmeno di chi si trova da solo nel canale, offrendo una serie di bot che permettono le più svariate attività: è possibile ascoltare le canzoni preferite o divertirsi con giochini di intrattenimento. I bot permettono infatti di personalizzare un server, non solo con contenuti di intrattenimento, ma anche con funzioni davvero utili, ne sono un esempio i traduttori in tempo reale ed i bot moderatori del server. La figura del moderatore ricopre infatti un ruolo fondamentale. Discord fornisce tutti gli strumenti per rendere il proprio server un luogo sicuro, mettendo a disposizione degli utenti la Moderator Academy: una vera e propria guida ad una gestione sicura ed efficace del server.

Com’è possibile intuire da queste funzionalità, sebbene Discord sia nato per soddisfare le esigenze dei gamers e sia ad oggi utilizzato da diversi streamer Twitch (di cui parliamo nel nostro articolo), si è diffuso tra persone di tutte le età e professioni.  Come riporta il sole24ore, sul loro sito vengono vantati più di 100 milioni di utenti attivi al mese con 13,5 milioni di server attivi che hanno registrato un totale di 4 miliardi di minuti di conversazione. Tra questi possiamo trovare club sportivi, comunità artistiche, gruppi studio e persino aziende.

Discord vs Slack per le aziende

Diverse aziende hanno infatti deciso di adottare Discord per gestire la comunicazione aziendale, considerandolo una valida alternativa all’applicazione concorrente: Slack. Entrambe rispondono infatti all’esigenza di un metodo di comunicazione efficace, rapido e strutturato. Come evidenziato nel confronto proposto da Bitboss, rispetto a Slack, Discord offre un sistema di gestione dei ruoli più potente e personalizzabile ed una semplice procedura di creazione di stanze e canali per riadattare il server ad una miglior gestione dei diversi progetti, senza dimenticare uno spazio realax, dedicato al piacere di una buona chiacchierata. Le attenzioni di Discord per fornire server sempre più personalizzabili e non più dedicati al solo ambito del gaming sono all’ordine del giorno, tanto che a marzo Discord ha cambiato il suo motto da “Chat for Gamers” a “Chat for Communities and Friends”.

La sua versione di Clubhouse

Negli ultimi mesi Discord ha acquistato maggiore visibilità, complice la quarantena e i diversi post che lo citano confrontandolo a Clubhouse (presentato nel nostro articolo e considerato il social del momento), nonostante risulti evidente come l’offerta di Discord sia decisamente più ampia. Qual è stata la risposta a questo paragone? Lo Stage Channel: una nuova tipologia di canale lanciato in beta, strutturato in modo da permettere ad una serie di “eletti” di parlare e concedere la parola a chi del pubblico chiede di intervenire. Queste premesse suggeriscono un format molto simile a Clubhouse, che tuttavia, come suggeriscono su HT Tech, non sarà disponibile tanto presto, ma è attualmente accessibile scaricando la Public Test Builds che propone una versione iniziale della funzione.

Discord in numeri

Non è difficile intuire come gli effetti del lockdown si siano fatti sentire nel numero di utenze, Discord vanta oggi 100 milioni MAUs (dall’ingese monthly active users: utenti attivi al mese) ed ha raggiunto un picco di 10,6 milioni di utenti attivi contemporaneamente. Come riportano le analisi di Businessofapps, la piattaforma vanta 130 milioni di dollari in entrata nel 2020, con una crescita del 118% annuo. La maggior parte dei ricavi provengono da Nitro: un abbonamento che permette maggiori opzioni di personalizzazione del profilo, maggior qualità in streaming e screen-sharing ed altri vantaggi per il miglioramento del proprio server.

Discord può vantare oggi 300 milioni di account, 850 milioni di messaggi e 4 bilioni di minuti di conversazione ogni giorno. Come abbiamo visto, i tentativi di Discord nell’allargare i propri orizzonti stanno ottenendo i primi risultati, con un’ottima risposta da parte della community. Ad oggi il server più popolato è quello di Fortnite, un videogioco sviluppato da EpicGames di cui abbiamo parlato nel nostro articolo, con 571 mila utenti, seguito da Minecraft con 569 mila utenti. Riuscirà Discord a scrollarsi di dosso l’etichetta di “chat per gamers”? Non ci resta che aspettare e vedere la risposta della community.