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Ambiente, società e tecnologia

Avere (avuto) una vita sessuale potrebbe costarti il posto

In data 17 Novembre è stato reso noto su tutti i quotidiani nazionali l’epilogo del caso avvenuto nel 2018 della maestra di asilo nel Torinese, vittima di revenge porn, estorsione, diffamazione e licenziamento. L’ennesima vittima colpita: è stato applicato l’art. 612ter, ma è abbastanza?

Il caso

L’ex partner ha ottenuto, dopo aver pagato un risarcimento, la condanna ad un solo anno di lavori socialmente utili, al termine dei quali potrebbe essere prosciolto. È colpevole di aver inoltrato senza il consenso dell’allora 20enne foto e frame ricevuti in situazioni di sexting sul gruppo WhatsApp del calcetto, resi virali nell’immediato.

In un colloquio richiesto dalla ragazza per ottenere la rimozione dei contenuti che dovevano ovviamente restare privati, non solo si è rifiutato, ma ha anche giustificato le sue azioni con la natura non romantica della relazione. La difesa afferma che non ci sia dolo.

Dichiarazioni per il papà di un’alunna e amico del ragazzo: “Se si inviano certi video, si deve mettere in conto che qualcuno li divulghi” dice e continua “Non potevo credere che una maestra facesse certe cose”.

Sua moglie è invece responsabile delle minacce ricevute dalla docente affinché non denunciasse ma, siccome la denuncia è stata fatta, la donna ha messo la dirigente dell’asilo al corrente, non mancando di esporre ancora una volta tutto il materiale.

Dal canto suo, la dirigente è intervenuta optando per la pubblica umiliazione della ragazza davanti a colleghi, genitori e personale, annunciando con crudezza i motivi del licenziamento, almeno “non troverà lavoro manco per pulire i cessi in stazione”.

Le due sono ora processate per diffamazione ed entrambe devono un risarcimento alla maestra.

Pornografia non consensuale

Innanzitutto, ciò che la ragazza ha subito è comunemente denotato come revenge porn ed è così chiamato perché nella quasi totalità dei casi è compiuto da un partner di sesso maschile che, per ripicca, diffonde immagini e video intimi del/la partner. Gli esperti preferiscono parlare però di pornografia non consensuale: il termine revenge porn ha di per sé un’accezione colpevolizzante verso la vittima poiché implica che questa abbia innescato la vendetta con un suo comportamento errato (al link, l’associazione Bossy definisce il victim blaming, utile per comprendere la portata del fenomeno). È però di deliberata violenza e negazione delle volontà di chi subisce.

Di fatto, ci sono varie tipologie di abuso sessuale digitale, che possono intrecciarsi più o meno con le dinamiche “analogiche”:

  • Hacking dei cloud e dei dispositivi, come successo a numerose celebrities, personaggi politici (deputata Sarti) o pubblici (l’ultima di una lunga lista, Guendalina Tavassi);
  • Furto e pirateria di contenuti creati per siti di “patronato” digitale a pagamento (OnlyFans, Patreon);
  • Insulti e aggressioni sui canali social in risposta a post e commenti;
  • Scatti e riprese eseguite con telecamere nascoste in momenti di intimità o che inquadrano all’insaputa parti del corpo con fini pornografici (a volte vengono addirittura filmati gli stupri);
  • Richiesta di fotografie personali sui social e costanti pressioni e minacce, specialmente subite da minorenni;
  • Pubblicazione e vendita dei contenuti citati nei punti precedenti su gruppi e forum dedicati, spesso corredati di profili social e informazioni sensibili delle vittime.

A questo elenco infernale si aggiungono le creazioni di applicazioni che utilizzano l’intelligenza artificiale delle reti neurali come DeepNude (oggi chiusa per questioni etiche) e FakeApp. Non è nemmeno necessario che vengano documentati i comportamenti (sessuali o non) delle vittime: con poche ore di esercizio sul programma si possono ottenere realistiche immagini di nudo a partire da comuni fotografie rubate da Instagram o addirittura l’inserimento del volto desiderato in un sex tape.

I dati e le conseguenze

L’espressione digitalizzata di ogni aspetto della vita – inclusa la sessualità, è naturale ed è comunque inevitabile, specialmente ora che è stata accelerata dalla situazione di pandemia globale. Si stima che fino al 20% dei nativi digitali utilizzi metodi multimediali per approcciarsi all’affettività, ma anche per contatti di tipo erotico. Molti adolescenti ritengono normale filmarsi durante atti sessuali. Tra gli adulti e i Millenials è invece una pratica ancora più diffusa: circa il 37,5%, secondo Statista.

Il problema è che, potenzialmente, dopo una qualunque giornata di scuola o di lavoro chiunque(1 persona su 10, secondo uno studio USA del 2019) – può essere oggetto di simili circostanze perché purtroppo i mezzi e la facile reperibilità del materiale in aggiunta alla (quasi) totale assenza di conseguenze per chi esegue upload di dati non consensuali genera una combinazione spesso letale. La Polizia Postale stima che il ritmo dei casi di revenge porn ammonti a due al giorno, per un totale di 1083 indagini in corso a Novembre 2020. Nel 90% dei casi si tratta di vittime donne, gran parte del 10% rimanente è parte della comunità LGBTQ+.

Non sono però disponibili dati completi e certi. Risulta quasi banale specificarlo, ma è una dinamica persistente: non tutti gli abusi vengono denunciati a causa della mancanza di supporto, della paura delle terribili conseguenze, dello stigma sociale del dover essere giudicata per aver realizzato materiale esplicito o aver perso il controllo dei propri contenuti online.

Le ricerche in ambito psico-sociale dimostrano che chi perpetra tali azioni ha una concezione totalmente oggettivante dei bersagli: non le considera persone bensì strumenti interscambiabili con altri simili, attraenti solo nel momento in cui possono essere controllati e puniti in base alla loro capacità di soddisfare i propri bisogni. Appropriandosi di tutto ciò che appartiene alla vittima, ovvero la sua identità e la sua soggettività, non si fa altro che negarle l’umanità. Una volta che si è compiuto questo passo, tutto è legittimato. Già dagli anni ‘80 l’avvocata e attivista MacKinnon afferma che le donne vivono nell’oggettivazione sessuale come i pesci nell’acqua”.

Amnesty International, in un’indagine del 2017, riferisce che il rapporto delle donne con Internet e con le relazioni in generale venga affrontato con ansia e perdita di autostima nel 67% dei casi e questo quando è causato “solo” da molestie e abusi sul web di gravità “minore”.  Le conseguenze sono devastanti sia sul piano psichico-individuale, sia sul piano socio-lavorativo, esattamente come una violenza sessuale fisica: alienazione e depersonalizzazione, assieme a sindrome da stress post-traumatico, disturbi alimentari e tossicodipendenza, depressione sono estremamente comuni. La pornografia non consensuale causa però anche la perdita del lavoro e l’emarginazione sociale, proprio come dimostrato nel caso della maestra torinese. Inoltre, è tristemente noto che il 52% delle vittime considera il suicidio e la percentuale cresce nei casi che coinvolgono minori.

L’Associazione no profit di sostegno legale alle vittime PermessoNegato stila report (l’ultimo è proprio di Novembre) nei quali illustra come il fenomeno della pornografia diffamatoria su triplichi di quadrimestre in quadrimestre. La mancata collaborazione dei portali e delle piattaforme che ospitano i contenuti privati violati è un altro grave problema molto ben evidenziato. In molti casi, non c’è alcun interesse a risolvere le falle di privacy, quasi si incentivasse il caricamento di certi video e foto. Attualmente sono sotto indagine i colossi Telegram e Pornhub. Altri social stanno gradualmente modificando le condizioni di utilizzo e le policy.

L’approvazione dell’articolo 612ter del Codice Penale e la situazione attuale

In Italia è stato eclatante il caso di Tiziana Cantone nel 2016, suicidatasi perché, avendo richiesto il diritto all’oblio in seguito alle denunce effettuate un anno prima per revenge porn, veniva ancora perseguitata. Il governo ha finalmente deciso di prendere provvedimenti, nonostante fosse in ritardo rispetto ad altri Stati. Dopo il successo della petizione di #IntimitàViolata che in una settimana raccoglie 110.000 firme è un lungo lavoro di molte campagne di sensibilizzazione, il 4 agosto 2019 è stato approvato l’articolo 612ter del Codice Penale, che andrebbe a colmare proprio le lacune legislative del pacchetto Codice Rosso, una raccolta di leggi che tratta la violenza di genere. La nuova normativa tutelerebbe maggiormente le vittime, considerando reato la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”; darebbe anche maggiore rilievo al legame di relazione (corrente o terminata) e favorirebbe ancor più le vittime in condizioni di disparità fisica  e/o condizione di fragilità, come la gravidanza. A più di un anno dalla sua entrata in vigore, risulta evidente dall’approfondita analisi effettuata da Leonardo Tamborini, procuratore presso il tribunale per i minorenni di Trieste, e Margherita Simicich, dottore in giurisprudenza (disponibile al seguente link), che la nuova norma è anacronistica rispetto ai metodi di diffusione in costante ed esponenziale espansione e che risente di lacune dovute sia al problema di rintracciare il “divulgatore 0”, sia ad altre clausole che entrano in conflitto tra loro.

L’Italia è un Paese nel quale durante la giornata per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne 2020 viene trasmesso su un canale pubblico (che ricordo essere pagato dai contribuenti, quindi dalle donne lavoratrici anche) un tutorial su come apparire sensuali mentre si svolgono mansioni tipicamente relegate appunto alle donne. Dopo due settimane le scuse della conduttrice.

Abbiamo a portata di mano una quantità di mezzi e contenuti che cresce esponenzialmente di giorno in giorno: possiamo continuare a utilizzarli in modo irresponsabile e non etico o agire con coscienza. Attuare politiche sociali e progetti educativi, oltre a rendere il Codice Penale una tutela a trecentosessanta gradi per le vittime, sono urgenze da affrontare immediatamente per prevenire e contrastare l’avanzata di tali violenze. Il web è già parte integrante e inscindibile della “vita vera”.

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Marketing & Social Media

Creare un negozio online non è mai stato così facile

In questi ultimi mesi abbiamo avuto modo di capire quanto sia diventato fondamentale creare una presenza online. 

Secondo i dati dell’Osservatorio e-commerce B2C del Politecnico di Milano, nel 2019 il valore degli acquisti online ha subito un incremento del 15% rispetto all’anno precedente, mentre per quanto riguarda il 2020, anno dei lockdown, gli acquisti di prodotti online sono cresciuti del 31%.

I dati dimostrano quanto l’e-commerce stia diventando un fenomeno sempre più rilevante: è diventato infatti un mezzo fondamentale attraverso il quale farsi conoscere e raggiungere clienti che non si trovano in prossimità del negozio fisico.

Inoltre, i clienti sono sempre più incentivati ad acquistare online perché attirati da prezzi più convenienti, dalla rapidità delle operazioni e naturalmente per comodità.

Questo fenomeno ha incoraggiato moltissimi negozianti a costruire una presenza online, attraverso la creazione di un sito web e la partecipazione attiva sui social network, ma soprattutto li ha posti davanti alla necessità di aprire un vero e proprio e-commerce, in modo tale da per poter vendere i propri prodotti a una clientela più ampia.

Sono numerosi gli ostacoli che titolari e imprenditori immaginano di dover affrontare per poter raggiungere i clienti sfruttando il mondo digitale, ma è veramente così complicato costruire un negozio online?

Come creare un negozio online in modo semplice e veloce

Sono sempre di più i commercianti che decidono di avvicinarsi al mondo dell’e-commerce e spesso per farlo si affidano a soggetti terzi già presenti online come, per esempio, Amazon o eBay.

È emerso però anche il desiderio di creare un e-commerce da poter gestire liberamente in prima persona, dato che la vendita di prodotti su piattaforme gestite da terzi può avere diverse limitazioni, tra cui costi aggiuntivi non indifferenti e dipendenza dalla piattaforma stessa.

Molti negozianti preferirebbero invece poter ricevere personalmente gli ordini online direttamente dai loro clienti. 

Per farlo esistono delle piattaforme che consentono a chiunque di creare e gestire in autonomia il proprio negozio online in maniera semplice, veloce, senza la necessità di avere particolari competenze informatiche e con l’implicazione di un budget molto ridotto.

Utilizzando questi servizi è possibile gestire con facilità informazioni su prodotti e giacenze, organizzare a proprio piacimento le pagine degli articoli e scegliere metodi di pagamento più adatti senza doversene occupare personalmente.

Quali sono queste piattaforme?

Shopify è un ottimo esempio di sito web su cui fare affidamento per costruire un e-commerce da zero.

Si tratta di un servizio utilizzato da più di 1.000.000 di negozi in tutto il mondo!

È in grado di gestire moltissimi aspetti della vendita al posto del negoziante: i pagamenti, i checkout sicuri, le spedizioni e perfino l’area marketing.

C’è un periodo di prova gratuito di 14 giorni, una volta concluso è possibile scegliere tra diversi piani tariffari, che naturalmente differiscono per i vari servizi offerti.

Oltre a Shopify, ci sono molte altre piattaforme, per esempio: Magento E-Commerce, un sito che permette di creare un business online da zero, facile da gestire e controllare, Volusion, sito molto semplice e intuitivo che ha aiutato più di 180.000 imprenditori a creare il loro negozio online ideale, Prestashop che vanta 300.000 commercianti abbonati al sito e WordPress, semplicissimo da utilizzare e con milioni di utenti che vi fanno affidamento.

Queste piattaforme differiscono le une dalle altre per alcune peculiarità, ma si accomunano per quanto riguarda l’offerta di una vasta gamma di funzionalità e per la capacità di permettere la creazione di un negozio online completamente funzionale. 

Un ulteriore importate requisito che gli e-commerce stanno cercando di soddisfare è la riproduzione di un’esperienza di acquisto sempre più simile a quella in negozio. 

Molte piattaforme si stanno impegnando a realizzare tale situazione, come per esempio ha fatto una start up chiamata ShopCall: attraverso questo sito è possibile infatti creare un e-commerce che comprende la possibilità di mostrare in videochiamata i propri prodotti ai clienti.

In questo modo viene riprodotta l’esperienza che il cliente vive di solito in negozio, ovvero una osservazione più accurata del prodotto che desidera acquistare.

Si tratta sicuramente di un’idea curiosa che potrebbe essere sfruttata in maniera molto efficace per attirare più clienti verso il proprio sito.

Non resta altro che cimentarsi nella creazione di un negozio online sfruttando questi strumenti semplici e intuitivi alla portata di tutti! 

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Ambiente, società e tecnologia

Il futuro della carne è basato sul vegetale?

È di qualche giorno fa l’annuncio di McDonald’s di voler inserire nel proprio menu, a partire dal 2021, il McPlant. Si tratta di un burger di “finta carne” composto da proteine vegetali prodotte in laboratorio e con l’ausilio di stampanti 3D.

L’hamburger è già stato “testato” lo scorso anno nei McDonald’s canadesi e sarà uno dei tanti prodotti di una linea tutta al vegetale e con un packaging al 100% biodegradabile.

La decisione è stata presa sulla scia di competitors quali Burger King o KFC che già da qualche anno hanno inserito nel menu soluzioni per vegani o per chi, semplicemente, ha deciso di ridurre il consumo di carne.

La notizia potrebbe passare come una semplice aggiunta di menu ma è qualcosa di più di questo. Le catene di fast food precedentemente nominate, infatti, sono nate con l’idea di proporre solo piatti a base di carne e una scelta del genere fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Ma cosa c’è dietro a questa inversione di marcia?

È da escludere che tale scelta si possa collegare al tentativo dei fast food di scrollarsi di dosso il sinonimo di cibo spazzatura (junk food). La risposta è, invece, da ricercare nell’’attenzione che le multinazionali del food, e non solo, hanno nei confronti dell’ambiente e dei consumatori.

Consumo di carne: a che punto siamo?

L’aumento del consumo di carne è direttamente proporzionale all’aumento dei redditi e, stando a quanto pubblicato dalla BBC, negli ultimi 50 anni la quantità di carne prodotta è aumentata di quasi cinque volte: passando da 70 milioni di tonnellate nei primi anni ‘60 a quasi 330 milioni di tonnellate nel 2017.

Ma se la carne nei paesi più ricchi è un piatto abituale, e non più delle grandi occasioni come avveniva in passato, nei paesi più poveri continua a rimanere un privilegio.
Facendo sempre riferimento al report della stessa BBC, il consumo di carne medio a persona di un paese come l’Etiopia o la Nigeria è 10 volte minore rispetto a quello di un cittadino Europeo.

Consumo medio di kg di carne per persone/anno (Sorgente: UN Food and Agricolture Organization)

Carne e ambiente, qual è la relazione?

Il trend descritto pare abbia già avuto il suo picco e in questi anni stiamo notando una leggera decrescita del consumo di carne.

Ma a spingere all’abbandono della carne ci sono anche motivi ambientali.

Infatti, il beneficio che l’ambienta trae con la riduzione del consumo di carne è significativo.

La rivista online Duegradi, in un recente articolo, ha riportato che:

“L’industria della carne è oggi una delle principali responsabili dell’emissione di gas serra nell’atmosfera, producendo il 14% delle emissioni globali, più dell’intero settore dei trasporti”

Risorse usate per la produzione di Carne e Latticini  e Risorse derivate da Carne e Latticini (CHG= Gas Serra)                                                                                                   

Fonte: Duegradi.eu

La transizione verso il meatless è, quindi, dettata da motivi salutistici ma anche ambientali e il mercato ha la necessità di adattarsi a consumatori sempre più attenti, informati e consapevoli delle proprie scelte.

Le istituzioni, dall’altra parte, incentivano o, quanto meno, non ostacolano la tendenza ed è proprio in tale ottica che si inserisce la decisione del Parlamento Europeo di lasciare la possibilità alle aziende di continuare a utilizzare  termini associati in genere solo a prodotti a base di carne, come “hamburger”, “burger”, “bistecca”, “salsiccia”, anche per i prodotti a base vegetale.

La carne vegetale può venire incontro a tutta una serie di problematiche, sopra trattate, ma anche alle esigenze di persone che già seguono diete vegetali o, ancora, per avvicinare gli “scettici” ad un consumo più consapevole della carne senza discostarsi dalla forma e dal sapore di quest’ultima.
Non ci resta che attendere e vedere se una soluzione del genere possa, effettivamente, cambiare le carte in tavola.

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Entertainment, videogame e contenuti

#NoStreamDay: anche gli streamer meritano tutela

Come è tristemente noto, perdere il lavoro è, specialmente in questo periodo storico, una delle esperienze più destabilizzanti e deprimenti che si possano sperimentare nella propria vita personale. Fortunatamente, nel nostro Paese, esistono (forse fin troppe) tutele a garanzia che ciò avvenga il meno possibile. Tuttavia, diverse nuove categorie di lavoratori del web, nonostante paghino le tasse in Italia e siano, spesso, sotto contratto, vengono pressoché completamente ignorate da queste tutele. Particolarmente precaria è la situazione degli streamer di Twitch: dipendenti da un regolamento il cui contenuto non è pubblico (sono consultabili solamente alcune “linee guida”), spesso si ritrovano allontanati dalla piattaforma per motivi futili e in maniera decisamente poco trasparente. Alla luce di ciò, diversi tra i creator italiani più seguiti hanno deciso di collaborare per provare a migliorare la loro situazione lavorativa. Nasce così il “NoStreamDay”, il primo vero e proprio sciopero degli streamer che si terrà il 9 dicembre.

La scintilla

Ma qual è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso? L’iniziativa nasce a seguito del ban di Sdrumox, pseudonimo di Daniele Simonetti, che, dopo essere stato solamente “sospeso a tempo indeterminato” a maggio, si è visto cacciato definitivamente dalla piattaforma qualche settimana fa. Il ban, per chi non conoscesse il linguaggio web, è l’equivalente del licenziamento nel “mondo reale”. Più nello specifico, essere bannati da Twitch comporta non solo la cancellazione del proprio canale ma anche l’impossibilità di crearne uno nuovo (cosa invece possibile su YouTube) e il divieto di essere “pubblicizzati” in qualsiasi modo da altri streamer. La pena si inasprisce se il soggetto del ban è un partner di Twitch: durante quelli temporanei non è possibile utilizzare altre piattaforme concorrenti, pena l’allontanamento definitivo. È, quindi, intuitivo come una sospensione di sei mesi possa essere inabilitante per un professionista, soprattutto se poi si tramuta in allontanamento conclusivo senza alcuna apparente ragione.

L’iniziativa

Storie come quella di Daniele sono, in realtà, all’ordine del giorno sul sito viola e gli organizzatori del NoStreamDay sperano che l’iniziativa possa essere un primo passo verso una maggiore tutela del loro lavoro. L’invito allo sciopero è esteso a chiunque utilizzi la piattaforma come streamer e, soprattutto, a tutti gli spettatori. Il 9 dicembre, infatti, coloro che decideranno di aderire non dovranno accedere al sito viola per tutta la giornata. Unica eccezione saranno le ore 16.00, orario in cui gli streamer partecipanti al NoStreamDay trasmetteranno 5 minuti di live dove verrà letto il manifesto dell’iniziativa. Il giorno precedente, invece,v errà organizzata una trasmissione collettiva con tutti i supporter e verrà fatto partire l’hashtag #nostreamday su Twitter, con lo scopo di dare maggiore visibilità alla protesta.

Il manifesto

Il manifesto in questione non contesta la durezza del sistema dei ban in sè ma l’aleatorietà con cui viene attuato, oltreché la già citata poca chiarezza e trasparenza del regolamento stesso. In effetti, è facile notare diverse disparità di trattamento e insensatezze nella moderazione di Twitch. Basti pensare ad alcune streamer che sono state sospese per aver indossato vestiti “troppo scollati” nonostante nella piattaforma prolifichino contenuti soft-pornografici di ogni tipo; oppure a gag fisiche innocue punite per “autolesionismo” mentre, giusto qualche giorno fa, la trasmissione di uno streamer russo, in cui veniva costantemente inquadrato il cadavere della sua compagna appena deceduta, non è stata nemmeno interrotta. Per non parlare di tutte le problematiche e i fraintendimenti che possono nascere attorno alle trasmissioni di stampo comico-satirico, che spesso si trovano a doversi auto-censurare nel timore di andare a toccare argomenti non graditi. Tabù che, come è immaginabile, non sono comunicati chiaramente nemmeno a chi con Twitch ha un contratto. In definitiva, gli streamer e le streamer chiedono di poter avere, quantomeno, un dialogo con Amazon, che ricordiamo essere proprietaria di Twitch, e di avere qualcosa di più che opache linee guida su cui decidere cosa fare e cosa no nello proprie trasmissioni.

Quale futuro?

In definitiva, gli streamer e le streamer chiedono di poter avere, quantomeno, un dialogo con Amazon, che ricordiamo essere proprietaria di Twith, e di avere qualcosa di più che opache linee guida su cui decidere cosa fare e cosa no nello proprie trasmissioni. Nonostante il NoStreamDay riguardi, quindi, solamente Twitch, l’iniziativa pone diversi interrogativi e problematiche che, probabilmente, diventeranno sempre più centrali nel futuro prossimo del mondo del lavoro. Non solo il sito viola, ma anche tutti gli altri social media come Facebook, YouTube e Twitter possono interrompere il rapporto lavorativo con qualsiasi creatore di contenuti da un giorno all’altro e senza alcun preavviso. In un mondo in cui sempre più persone si troveranno, in un modo o nell’altro, a lavorare attraverso società web semi-monopoliste, è concepibile che questo modus operandi continui senza alcuna tutela? Vale più il regolamento di una piattaforma privata o la legge dello Stato? Domande come questa meriterebbero più attenzione nel dibattito politico. Non resta che augurarsi che il NoStreamDay abbia abbastanza eco mediatico da, magari, iniziare a smuovere l’opinione pubblica.

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Economia, StartUp e Fintech

L’Unione Europea e l’Italia verso un’economia più verde

L’11 dicembre 2019 presso la sua sede a Bruxelles la Commissione europea ha presentato agli Stati membri l’European Green Deal, un progetto che ha lo scopo di portare tutti i Paesi membri verso un’economia più sostenibile e con impatto climatico zero.

Con tale programma l’Ue intende raggiungere due obiettivi: ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli del 1990 entro 2030 e quello più ambizioso di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

In base a quanto riportato sul sito ufficiale della Commissione europea, “per conseguire questi obiettivi sarà necessaria l’azione di tutti i settori della nostra economia”, tra cui:

  • Decarbonizzare il settore energetico
  • Sostenere l’innovazione dell’industria europea, che utilizza solo il 12% dei materiali riciclati
  • Garantire una maggiore efficienza energetica degli edifici, incentivandone la ristrutturazione;
  • Introdurre forme di trasporto pubblico e privato più pulite, più economiche e più sane
  • Investire in tecnologie rispettose dell’ambiente.

Per realizzare gli obiettivi il 14 gennaio 2020 è stato presentato il Piano di investimenti per l’Europa sostenibile, che prevede la mobilitazione nel prossimo decennio di investimenti pubblici e privati per almeno 1000 miliardi di euro.

Questi investimenti son destinati a tutti i Paesi membri, per rendere l’economia più rispettosa dell’ambiente.

Il new Green Deal italiano

Anche il nostro Paese si sta mobilitando per creare un’economia più sostenibile e solidale con l’ambiente, in linea con quanto previsto dall’Unione europea.

Il 13 dicembre 2019 è stato convertito in legge il Decreto Clima, considerato dal Ministro dell’Ambiente Sergio Costa come “il primo atto normativo del governo italiano che inaugura il New Green Deal.

Le principali misure adottate sono: il bonus mobilità per i cittadini dei comuni interessati dalle procedure di infrazione europea per la qualità dell’aria, che potranno essere utilizzati in 3 anni per l’acquisto di abbonamenti per il trasporto pubblico o di biciclette; l’avvio di un programma sperimentale per la forestazione delle città metropolitane; il riconoscimento di 5 mila euro di contributi a fondo perduto per i commercianti che nei loro negozi creeranno dei green corner, angoli per la vendita di prodotti sfusi o alla spina, alimentari o per l’igiene personale.

La legge di bilancio 2020

Inoltre, il governo ha anche dedicato una parte della Legge di bilancio 2020 alla realizzazione del New Green Deal italiano.

L’istituzione di un fondo per investimenti pubblici

È stato anzitutto prevista la creazione di un Fondo per la crescita sostenibile a cui saranno assegnati oltre 4,2 miliardi di euro che saranno ripartiti tra gli anni 2020 e 2023, e che sarà finanziato con i proventi della messa in vendita delle quote di emissione di CO2. Questo fondo sarà utilizzato per “sostenere programmi di investimento e operazioni finalizzate a realizzare progetti economicamente sostenibili che abbiano come obiettivo la decarbonizzazione dell’economia, l’economia circolare, il supporto all’imprenditoria giovanile e femminile, la riduzione dell’uso della plastica e la sostituzione della plastica con materiali alternativi, la rigenerazione urbana, il turismo sostenibile, e in generale programmi di investimento e progetti a carattere innovativo e ad elevata sostenibilità ambientale e che tengano conto degli impatti sociali.”

Efficientamento energetico dei condomini

Nell’ambito del Fondo di garanzia per la prima casa è stata istituita una sezione speciale per la concessione di garanzie, nella misura massima del 50% della quota capitale, ai condomini per la loro ristrutturazione finalizzata all’aumento dell’efficienza energetica.

Green bond

È prevista la possibilità di emettere dei titoli di Stato cosiddetti “green” per finanziare gli investimenti orientati a contrastare i cambiamenti climatici, alla riconversione energetica, all’economia circolare e alla protezione dell’ambiente.

Plastic tax

Viene istituita la Plastic tax, l’imposta sul consumo di manufatti in plastica con singolo impiego che hanno funzione di contenimento, protezione o consegna di merci e prodotti alimentari.

Ecobonus

Vengono confermati il bonus per la ristrutturazione con detrazione fiscale del 50% e l’ecobonus per la riqualificazione energetica degli edifici e degli appartamenti con detrazione fiscale fino al 65%.

Questi sono solo i primi provvedimenti messi in campo dall’Italia e dall’Unione europea per ridurre l’inquinamento nelle città e creare una economia con un minor impatto ambientale, ma se vogliamo combattere il cambiamento climatico ormai già in atto dobbiamo continuare su questa strada.

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Ambiente, società e tecnologia

Il quadrupede Spot: robot e sicurezza

Web Summit, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Creato nel 2015 dall’azienda di robotica ed ingegneria statunitense Boston Dynamics, Spot è l’innovativo robot a quattro zampe entrato ufficialmente nel mercato il 23 gennaio del 2020. Dopo la creazione nel 2005 di BigDog, un robot quadrupede progettato esclusivamente per fini militari, la stessa azienda ripropone un cane tecnologico dalle caratteristiche sorprendenti.

Questa struttura canina, che pesa 25 kg, è in grado di svolgere numerose mansioni e di compiere azioni che potrebbero risultare difficili per l’uomo: Spot può infatti saltare, salire e scendere le scale, può addirittura aprire la porta autonomamente. È dotato di grande agilità ed ampia visione dell’ambiente circostante, e grazie al Global positioning system e alla computer vision, è in grado di spostarsi tramite le proprie “zampe” e raggiungere la destinazione prefissata. Possiede inoltre la capacità di calcolo che gli permette ad esempio di elaborare mappe 3D ed individuare eventuali guasti nelle macchine industriali.

La “spia” per la lotta contro il coronavirus

Con l’emergenza verificatasi a causa della pandemia dovuta all’espandersi del Covid-19, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (robot, droni) si è intensificato a livello globale, per poter garantire il rispetto delle norme in vigore. Spot è stato infatti protagonista di un esperimento svoltosi a Singapore, al fine di vigliare sul mantenimento del distanziamento sociale. Nei parchi della città giapponese è stato infatti utilizzato come importante mezzo di controllo della distanza di sicurezza.

Il compito del quadrupede consiste nell’analisi dell’ambiente circostante tramite telecamere e sensori, grazie ai quali è in grado di rilevare il numero di persone presenti, fornendo così in tempo reale i dati sull’affollamento dei parchi ed evitando al tempo stesso eventuali assembramenti di persone. Spot è controllato da remoto, ma non è in grado di effettuare riconoscimenti facciali, garantendo così il rispetto della privacy delle persone coinvolte. Sembrerebbe avvicinarsi in cerca di cibo e coccole, ma in realtà è dotato di un megafono in grado di ricordare ai presenti di rispettare la distanza di sicurezza.

Una possibile risorsa per il futuro

L’utilizzo di Spot potrebbe rappresentare un’importante contributo per la medicina. È stato infatti sperimentato da parte della Boston Dynamics, in collaborazione con l’ospedale di Boston, l’impiego del quadrupede robotico per performare da remoto l’analisi di pazienti probabilmente affetti dal coronavirus. L’idea è quella di dotare Spot di iPad e radio bidirezionale al fine di rilevare direttamente da casa i parametri vitali, quali temperatura corporea, pulsazioni, livello di saturazione di ossigeno e frequenza cardiaca, ed eseguire la disenfezione degli ambienti infetti. Si pensa addirittura di sperimentare in futuro, tramite lo stesso mezzo, la visita del paziente contagiato direttamente presso la sua abitazione. L’obiettivo è quello di aiutare gli operatori sanitari a svolgere il loro lavoro con maggior sicurezza, diminuendo così il rischio di contagio.

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Ambiente, società e tecnologia

CO2 atmosferica: come cambia il cibo

Nel luglio 2019 la rivista scientifica “The Lancet” ha pubblicato un articolo in cui mostrava quale sia l’impatto dell’aumento di CO2 atmosferica sulle proprietà nutrizionali dei cibi. Attraverso questo articolo, è stato lanciato così un allarme circa le conseguenze che si potranno avere sulla sicurezza alimentare.

Solo quattro anni prima, nel Settembre del 2015, i 193 stati membri ONU avevano stilato il programma Agenda 2030: lo scopo era quello di guidare i Paesi sottoscriventi verso uno sviluppo più sostenibile, mediante l’ausilio di una serie di obiettivi da raggiungere entro i quindici anni successivi. Tra i 17 “sustainable development goals” vi è anche quello che vorrebbe vedere azzerata la fame nel mondo…ma come sarà possibile farlo se il cibo cambia molto più velocemente di quanto pensiamo?

Dati relativi al cambiamento dei valori nutrizionali del cibo

Ad oggi le concentrazioni di CO2 atmosferica sono aumentate quasi del doppio rispetto all’era pre-industriale e si stima che l’effettiva concentrazione di CO2 raggiungerà le 570 ppm prima della fine di questo secolo. Un gruppo di ricercatori ha provato a coltivare diverse varietà di riso in siti diversi e alle condizioni di anidride carbonica previste per il futuro: il risultato è stupefacente. Raffrontando i campioni prelevati con quelli coltivati alle condizioni correnti, si riscontra una diminuzione del 10% per la componente proteica e, allo stesso modo, è stata osservata una diminuzione anche per il ferro e lo zinco rispettivamente dell’8 e del 5%. Questi dati possono essere spiegati partendo dal presupposto che, con l’aumento della CO2, aumenta anche l’attività fotosintetica delle piante e di conseguenza aumenta la sintesi di zuccheri e amido. Sono dunque minime le quantità di carbonio che possono essere utilizzate per costruire altre macromolecole come proteine e vitamine.

Le ripercussioni dovute alla diminuzione dei nutrienti nel cibo possono essere diverse, infatti per esempio se si osserva il complesso vitaminico B, il dato che desta maggiore preoccupazione è quello della vitamina B9 che registra una diminuzione di circa il 30%. La vitamina B9, nota anche come folato, ha un ruolo determinante nei primi trimestri della gravidanza, tant’è che evidenze scientifiche dimostrano come la carenza di acido folico rappresenti uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di malformazioni e, in particolare, dei difetti del tubo neurale, come il mancato sviluppo del cervello o l’estroflessione del midollo spinale. Lo zinco, i cui dati sono riportati precedentemente, ha anch’esso rilievo nello sviluppo fetale e continua ad avene per tutta la vita dell’individuo condizionandone fortemente la salute; secondo i primi dati raccolti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad oggi, sembrerebbe che circa 1.4% delle morti nel mondo possa essere attribuito alla mancanza di zinco. Nei paesi in via di sviluppo la carenza di zinco può colpire quasi 2 miliardi di soggetti e gli effetti possono essere i più disparati: dal ritardo nella crescita all’alterazione delle funzioni biochimiche vitali.

Sicuramente queste ricerche non sono rassicuranti, ma è opportuno contestualizzare l’analisi fatta. Infatti, la diminuzione dei parametri nutritivi qui osservati è rappresentativa solo del riso, e attualmente non sono disponibili repliche dell’esperimento che coinvolgano altri cereali, sebbene uno scenario simile non possa escludersi aprioristicamente. Inoltre, è bene considerare che il fabbisogno calorico giornaliero di un individuo non viene coperto solo dai cereali, anzi è noto ormai da tempo, come sia preferibile un’assunzione dei nutrienti mediante un regime alimentare il più possibile vario. Alcuni studi dimostrano che si registra un cambiamento nelle abitudini alimentari delle popolazioni correlato aumentare del PIL. Ad esempio se si prendessero in analisi Giappone e Corea del Sud, si noterebbe che il consumo di riso dal 1975 ad oggi, è diminuito del 40%, nel primo paese e di quasi il 50% nel secondo.

L’impoverimento del cibo ha alla base una visione antropocentrica dell’ambiente e spesso a pagarne le conseguenze sono le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, infatti nel tempo l’uomo ha prediletto, e dunque selezionato, le varietà vegetali con una biomassa maggiore a discapito della qualità nutritiva delle stesse. Gli effetti dell’aumento della CO2 individuano un rischio che può essere definito sinergico, soprattutto nei Paesi come quelli africani. Negli ultimi anni, si è registrato infatti, un cambiamento nei modelli agricoli: si è abbandonata la coltura dei vegetali endemici a favore delle grandi colture di mais. La coltivazione del granturco provoca uno sfruttamento insostenibile sia del terreno che dell’acqua e in più favorisce la scomparsa degli impollinatori specifici degli ecosistemi africani. All’aumento del consumo di mais è imputabile anche l’aumento dei tassi di obesità; obesità che colpisce sempre più anche i paesi in via di sviluppo come mostrat dai dati riportati nel 2013 dal Overseas Development Institute.

Se si può, inizio io: progetti dell’Università Studi di Milano-Bicocca

A tal proposito è nato il Progetto SASS (Sistemi Alimentari e Sviluppo Sostenibile) avviato nel 2017 da un Consorzio guidato dall’Università di Milano-Bicocca al quale partecipano l’Università Cattolica, l’Università di Pavia, l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e lo European Centre for Development Policy Management di Maastricht. Questo progetto, che agisce proprio nell’Africa Subshariana, ha come scopo quello di lavorare sui sistemi agricoli ed individuare le specie vegetali marginali, ricche di nutrienti, che vengono consumate nelle diete locali. In particolare, si ha come obiettivo quello della ri-scoperta delle NUS (Neglected and Underutilized Species) mediante l’impiego di sistemi agricoli produttivi sostenibili, capaci di preservare suolo e risorse e al tempo stesso di produrre cibo e ricchezza.

«Grazie all’interazione di ricercatori di diverse discipline – dice Massimo Labra, docente di Biologia Vegetale e coordinatore del progetto l’Università Bicocca -, SASS mapperà e analizzerà i sistemi alimentari locali in tre diverse contesti dei paesi africani: aree naturali; aree agricole e contesti urbani e periurbani. Condivideremo e discuteremo obiettivi ed azioni della ricerca con gli stakeholders locali per capire insieme quali sono le strategie migliori da adottare per rendere gli attuali sistemi agricoli e di produzione alimentare più sostenibili e efficienti in vista delle sfide sociali future ma anche dei cambiamenti climatici in atto».

Infatti la scelta di coltivare mais, per i popoli dell’Africa Subsahariana, è una scelta di carattere economico in quanto apre loro la possibilità di esportare la materia prima, ma a lungo termine non può rappresentare una scelta sostenibile, né per l’ambiente né per tanto meno per la società, tant’è che sempre più le persone risultano obese e allo stesso tempo mal nutrite. La malnutrizione ha dei costi che il precario sistema sanitario africano non può permettersi, la scienza però ora può aiutare questi Paesi. Infatti, oltre ravvivare la tradizione delle colture originarie, è possibile selezionare varietà adatte alle condizioni ambientali africane, permettendo loro di preservare la risorsa acqua, favorendo l’equilibrio biotico e permettendo loro di esportare materie prime uniche e di qualità.

Se si tenesse fede al primo degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile e si riuscisse ad azzerare la povertà, non ci si dovrebbe preoccupare oltre modo dei dati riportati finora, e sebbene, anche grazie all’Università Milano-Bicocca possiamo sperare in un sereno epilogo per la situazione africana, i dati dell’analisi sui cereali desta ancora preoccupazione. I principali paesi consumatori di cereali cambieranno probabilmente nei prossimi decenni ma la dipendenza dai cereali a livello globale come alimento base continuerà.

Le Nazioni Unite individuano nella povertà la più grande minaccia per il futuro dell’umanità, il rapporto FAO dichiara che: “Nel 2019, circa 690 milioni di persone non avevano cibo a sufficienza da mangiare, in aumento di 10 milioni rispetto al 2018 e di quasi 60 milioni in cinque anni. […]. La pandemia COVID-19 ha messo altri 130 milioni di persone a rischio di fame entro la fine del 2020.” e questo dato sembra essere destinato a crescere, non solo perché la popolazione mondiale aumenta di anno in anno; ma anche perché, a meno che non ci sia un radicale cambio di rotta, il cibo sarà sempre meno nutriente.

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Ambiente, società e tecnologia

Packaging: alcune delle best practice

Che cos’è il packaging? È uno strumento funzionale, un mezzo per comunicare al cliente la missione di un brand, ma anche un costo ambientale: secondo Eurostat solo il 42% degli imballaggi in plastica è stato riciclato in Europa nel 2017. Come renderlo più sostenibile?

Ridurre il packaging ai minimi termini

Applicare la filosofia zero-waste alla spesa quotidiana: è questa la missione di “Negozio Leggero”. Questo franchising italiano nato nel 2009 riduce gli imballaggi superflui vendendo prodotti sfusi o tramite la soluzione del vuoto a rendere: il cliente può così riconsegnare le confezioni in vetro, che saranno sterilizzate e riutilizzate. Le stesse strategie ispirano il lato e-commerce: per le spedizioni infatti sono utilizzati imballaggi in cartone recuperato. Negozio Leggero cerca di realizzare un “sistema chiuso” per il packaging: sfrutta al massimo le potenzialità dei contenitori esistenti e li rispedisce vuoti ai suoi produttori.

Liberarsi degli imballaggi… oppure no?

Perché allora non eliminare definitivamente il packaging? Brutte notizie: è una soluzione inapplicabile. A dimostrarcelo sono… i broccoli. Perché proprio loro? Possiamo trovare la risposta in una ricerca pubblicata sul “Journal of Food Engineering” nel 2011; è stato mostrato che un parametro fondamentale per la durata della vita commerciale dei broccoli é la presenza di un sottile packaging in plastica, meglio ancora se microforato. I dati raccolti indicano che in questo modo la loro capacità di conservarsi aumenta del 30%. Senza il packaging questi ortaggi, che sono infiorescenze non più in grado di ricevere nutrimento e acqua dalla pianta, perdono molto più velocemente la loro massa, ingialliscono e il loro stelo si indurisce: insomma, diventano invendibili e aumenta il rischio di spreco.

Proposte tecnologiche per un packaging sostenibile

C’è chi, grazie alla ricerca, sviluppa nuove tecnologie: è il caso di Lanzatech, una startup nata nel 2005, che ha recentemente presentato il packaging che produrrà per L’Oreàl. La sua particolarità? Il processo tecnologico che permette di ottenere polietilene, materiale alla base del packaging, parte da un batterio e da gas di scarto e rifiuti industriali. Lanzatech sfrutta questo microrganismo perché è in grado di vivere consumando CO2, H2 e CO (composti di cui sono ricche le materie di partenza) e di sintetizzare etanolo come prodotto secondario. È proprio quest’ultimo composto a essere trasformato in etilene: sarà questo il mattoncino di base per la produzione finale del polietilene.

Un progetto che ha la stessa missione é “BioCosì”, sviluppato dal centro ENEA in collaborazione con la startup pugliese Eggplant. Il materiale di  partenza è costituito dai reflui della filiera lattiero- casearia, in particolare la frazione ricca in lattosio. Questa, come viene spiegato, “viene processata e fermentata in un bioreattore grazie a un microrganismo in grado di sintetizzare una bioplastica biodegradabile”; i prodotti finali saranno confezioni e vaschette per prodotti caseari. Grazie a questa tecnologia ogni step della filiera verrebbe valorizzato, perché gli scarti diventerebbero funzionali per i nuovi prodotti.

Entrambi i progetti hanno un obiettivo chiaro, che può essere riassunto con le parole chiave del progetto BioCoSì: mirano a lanciare un packaging che sia “sostenibile, circolare e intelligente”.

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Ambiente, società e tecnologia

La nuova mobilità urbana tra sostenibilità e sicurezza

 

Gli spostamenti urbani e il loro evolversi, questa settimana, sono più che mai sotto ai riflettori. Ma la corsa alle innovazioni, oltre che green, sa essere sicura?

Come si muovono le nostre metropoli oggi?

Pochi giorni fa la ONG Legambiente, insieme alla società di consulenza Ambiente Italia e a Il Sole 24 Ore, ha pubblicato il report annuale che descrive le performance ambientali delle principali città italiane, “Ecosistema urbano”.

Il rapporto valuta i centri urbani sotto vari aspetti e, per quanto riguarda la mobilità, fotografa un Paese che procede a velocità diverse verso la sostenibilità.

Complessivamente, noi Italiani viaggiamo su una media di 646 auto per 1000 abitanti. In Europa più di noi ne ha solo il Lussemburgo (676).

Sul trasporto pubblico, invece, emerge che siamo mediamente al di sotto degli standard europei, che solo alcune delle nostre città hanno finora raggiunto (sono esempi virtuosi Venezia e Milano, quest’ultima premiata anche dall’Urban Mobility Readiness Index per servizi all’avanguardia: 26esima nel mondo).

Il Covid cambia le regole

Se prima si cercava di estendere e migliorare i mezzi pubblici, quest’anno il Covid ha rimescolato le carte. La pandemia ha infatti imposto come effetto collaterale del distanziamento una riduzione della capienza dei trasporti, in controtendenza rispetto agli obiettivi precedenti.

La sfida, adesso, è quella di impedire che milioni di persone si riversino dalle metro ai mezzi privati inquinanti, garantendo la sicurezza di tutti ma allo stesso tempo proseguendo sul sentiero della sostenibilità.

La soluzione a questo problema, al governo, la chiamano bonus mobilità. In cantiere da mesi, è attivo dal 3/11 e ha subito riscosso un enorme successo, con un numero di richieste talmente elevato da mandare in tilt il sistema di identificazione digitale in poche ore.

Il contributo statale del 60% (fino a un massimo di 500€) può essere utilizzato per l’acquisto di biciclette (tradizionali o a pedalata assistita) e monopattini elettrici, ma anche segway, hoverboard e monowheel o abbonamenti a servizi di sharing purché non di autovetture.

 Il boom della condivisione

E a proposito di sharing (specialmente di monopattini), qui la rivoluzione green è forse ancora più tangibile.

È una realtà piuttosto recente nel Bel Paese, che ha visto arrivare i primi esemplari della statunitense Helbiz un po’ in sordina a ottobre 2018.

Anche in questo campo, l’Italia va a due velocità. Alcuni capoluoghi, come Palermo, stanno approvando solo ora servizi di condivisione, mentre altri sono già pronti a reggere confronti internazionali.

E anche qui, Milano dà il buon esempio: è 13esima al mondo per la sharing mobility, e il suo futuro si prospetta ancora più roseo. Si stima, infatti, che la flotta in circolazione aumenterà di 22 mila unità ogni anno.

Ma nessuna città è immune al cambiamento, e inizia a mostrarsi il rovescio della medaglia.

Nuova mobilità significa nuove leggi

La rivoluzione, infatti, ha due ruote ma migliaia di piloti “rivoluzionari”, privati e non, e se non è ben regolamentata l’effetto “giungla metropolitana” è assicurato.

Ecco perché la limitazione della velocità a 6 km/h nelle aree pedonali è obbligatoria per tutti, ma se per i mezzi di proprietà è più difficile imporla a priori, per quelli condivisi non è così. Infatti, le società si servono della geo-localizzazione per auto limitare la velocità dei monopattini nelle aree che lo prevedono, per impedire a monte che qualcuno corra troppo.

Le compagnie di sharing, inoltre, devono “costringere” gli utenti a parcheggiare negli appositi spazi al termine dell’utilizzo.

A garantire questo è l’app dell’operatore: una foto, ad esempio, verifica che la sosta sia in regola.

Alcuni brand, poi, stanno incentivando i propri clienti a essere sicuri alla guida, come nel caso di Bird con il suo “Helmet Selfie”, che dà un credito di 0,25€ a chi dimostra con un selfie di aver indossato il casco durante la corsa.

E quando non si rispettano le regole, intervengono le amministrazioni con norme più stringenti e sanzioni, soprattutto per i mezzi condivisi:

  • Roma ha introdotto per i monopattini in sharing aree di sosta con la tecnologia geo-fencing (in pratica, non si potrà interrompere la corsa fuori da queste aree, da ora visibili dalle app) e, per evitare una concentrazione troppo elevata, è stato imposto il rispetto di una distanza minima di 70 metri ogni 5 veicoli dello stesso operatore.
  • A Milano, invece, linea dura: alcune irregolarità nelle soste e nella limitazione della velocità hanno portato alla revoca delle licenze per 3 società, Circ, Helbiz e Bird.

Decisioni, queste, che non stupiscono: la rivoluzione della mobilità sostenibile può e deve passare anche dalla sicurezza.

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Economia, StartUp e Fintech

Hyperloop: viaggiare verso il futuro

Il treno super veloce di Richard Branson, il Virgin Hyperloop, ha sperimentato con successo il suo primo viaggio con passeggeri a bordo: il test è stato svolto l’8 novembre nel sito di prova di Las Vegas, nel deserto del Nevada, luogo in cui la compagnia aveva già concluso in passato ben 400 prove, senza però il coinvolgimento di esseri umani all’interno dell’Hyperloop.

I primi due passeggeri scelti per effettuare il test di sicurezza, Josh Giegel, Chief Technology Officer, e Sara Luchian, direttrice per la “passenger experience”, hanno avuto l’opportunità di constatare l’efficienza di questo nuovo veicolo: comodamente seduti all’interno della capsula, sono stati lanciati lungo un tubo di 500 metri e, raggiungendo la velocità di 172 chilometri orari, l’hanno percorso in soli 15 secondi.

L’esperienza è stata descritta da uno dei due fortunati passeggeri come l’opportunità di aver visto la storia compiuta davanti ai propri occhi.

Che cos’è un Hyperloop?

Si tratta di un mezzo di trasporto innovativo e molto veloce costituito da una capsula, il cui funzionamento prevede che quest’ultima, sfruttando un sistema di propulsione elettrica e levitazione magnetica, venga lanciata a vuoto all’interno di un tubo a bassa pressione.

Le produzioni future prevedono che questi mezzi di trasporto raggiungano velocità di almeno 965 chilometri orari.

L’obiettivo dei creatori degli Hyperloop consiste nella realizzazione di mezzi di trasporto affidabili ed efficienti per lo spostamento di persone e merci in grado di coprire lunghe distanze in brevissimo tempo, utilizzando solamente tecnologie sostenibili.

I passeggeri del test hanno viaggiato all’interno del nuovo XP-2 Veihicle, il quale presenta le caratteristiche che avranno gli Hyperloop prodotti in futuro dalla compagnia: essi saranno provvisti di morbidi e comodi sedili e piccole finestre, saranno molto silenziosi, avranno sistemi di sicurezza affidabili e un sistema di controllo all’avanguardia in grado di innescare rapidamente risposte appropriate in caso di emergenza.

In questa occasione la capsula utilizzata comprendeva posti per due soli passeggeri, ma la produzione futura prevede che il veicolo finale sia molto più grande, provvisto di almeno 28 posti a sedere.

Per quale motivo dovremmo affidarci ad Hyperloop?

Questa nuova forma di trasporto ha numerose qualità che la distinguono dai consueti mezzi ai quali siamo abituati oggi.

È infatti: più veloce, più sicura, più conveniente dal punto di vista economico e più comoda per gli stessi passeggeri.

Inoltre, secondo quanto affermato dalla compagnia, è particolarmente efficiente: Hyperloop sarebbe in grado di viaggiare alla velocità di un aircraft ma consumando molta meno energia rispetto ad esso.

La velocità che questi nuovi veicoli potranno raggiungere sarà pari a quella di un jet commerciale e ben quattro volte maggiore rispetto a un treno ad alta velocità.

Utilizzando questi mezzi di trasporto sarebbe possibile percorrere distanze come, per esempio, il tratto New York-Washington in soli 30 minuti!


Il successo che ha riscontrato il recente test effettuato dalla compagnia è stato molto incoraggiante per i creatori di Virgin Hyperloop, tanto che hanno deciso di accelerare il processo di concretizzazione del progetto in modo tale da renderlo realizzabile non in decenni, ma in pochissimi anni: sono infatti intenzionati a ottenere le autorizzazioni necessarie già nel 2025.

La tecnologia è in continua evoluzione e in questo specifico caso è pronta per un’importante e rapida svolta. Saremo in grado di adattarci ai sempre più immediati cambiamenti tecnologici in maniera altrettanto rapida?

Il portellone interno di Hyperloop
Hyperloop visto dall’esterno
Il tunnel utilizzato per il test
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Entertainment, videogame e contenuti

TWITCH: da videogiochi a “televisione del futuro” il passo è breve

Quando si pensa alla visione ad accesso libero di video in streaming il pensiero, inevitabilmente, viene subito indirizzato verso YouTube. Tuttavia, in quest’ultimo periodo, un’altra piattaforma, radicalmente diversa, sta riuscendo ad imprimersi nella cultura popolare come nuovo dominus dei video online: stiamo parlando di Twitch. Il social media di proprietà di Amazon è, infatti, leader dei live-streaming con ben il 72% delle ore totali trasmesse globalmente online e con una crescita di utenza – e di broadcaster – che non accenna a fermarsi. Ma qual è stata la “formula magica” dietro al successo del sito viola? Per capirlo occorre prima indagarne le origini.

Dalle origini a oggi: un successo predestinato?

Twitch nasce nel 2011 come succursale dedicata esclusivamente a videogiochi ed eSport della piattaforma di streaming generico Justin.tv. Da semi-monopolista del settore, Twitch divenne nel 2013 il sito dedicato alle trasmissioni eSport più popolare e, dopo essere stata acquistata da Amazon nel 2014, arrivò, già nel 2018, ad avere in media un milione di utenti attivi all’ora: ben più di alcune emittenti statunitensi come la CNN e la ESPN. Nonostante, quindi, Twitch abbia già da diversi anni dimostrato il suo enorme potenziale, il vero grande balzo di popolarità (soprattutto fuori dagli Stati Uniti) è arrivato solamente quest’anno.

È innegabile, infatti, che il lockdown abbia giovato a Twitch data la natura estemporanea dei contenuti offerti dal sito. Non a caso il maggior numero di persone disposte a guardare – e a trasmettere – video in diretta si è riflesso nella crescita esponenziale di ogni statistica con cui è misurabile il successo della piattaforma. Dal 2019 al 2020, gli spettatori medi connessi sono raddoppiati superando la soglia dei due milioni. Ad oggi, si parla di un totale di 1.6 miliardi di ore visionate al mese, con una media di 95 a utente: uno scenario quantomeno insolito rispetto al web “mordi-e-fuggi” a cui siamo stati abituati negli ultimi anni.

Anche in Italia, sembrerebbe che Twitch abbia ormai messo radici. Pur non avendo a disposizione dati precisi e aggiornati sul nostro paese, è possibile capire la crescente popolarità che la piattaforma sta avendo in terra nostrana considerando le analytics pubbliche di alcuni streamer.

Lo scenario italiano

Nel 2019 erano 23, oggi sono più di 64 gli streamer italiani che hanno superato i 100.000 follower, con il record di 1.172.244 attualmente detenuto da Pow3rtv, videogiocatore professionista. Interessante notare come in questa classifica più della metà dei broadcaster rientri nella categoria “Just Chatting”, la vera rivelazione di quest’anno. In quest’ultima, infatti, rientrano tutti quei contenuti che, prendendo in prestito un termine dal linguaggio televisivo, potremmo chiamare “talk show” e che, di conseguenza, si allontanano prepotentemente dalla natura videoludica per cui era nata in origine Twitch. La piattaforma si sta, quindi, avvicinando sempre di più a un pubblico generalista, attraendo così maggiori guadagni, creatori di contenuti ed investitori pubblicitari.

Per inquadrare meglio il fenomeno del Just Chatting in Italia consiglio di dare un’occhiata al canale Youtube dove vengono ricaricate le repliche del Cerbero Podcast, attualmente al primo posto della categoria in Italia e 48° nel mondo. Quest’ultima è una trasmissione condotta da tre youtuber (Simone Santoro, Davide Marra e Mr.Flame) che, tra toni irriverenti e situazioni surreali, tratta gli argomenti più disparati e svolge interviste a personaggi del web. Tuttavia, più che il contenuto in sé, è importante capire che, come successo con il Cerbero, gran parte dei programmi più seguiti (tra quelli non legati al mondo gaming) sono portati avanti da personaggi che sono nati e hanno raggiunto la popolarità su YouTube per poi, in un secondo momento, migrare su Twitch. Ma perché rinunciare ad audience già consolidate e, spesso, anche a sei cifre? Beh, come ci ha confessato Ruggero Rollini, divulgatore e comunicatore scientifico, durante un incontro di iBicocca… perché Bezos paga. E paga bene, molto più di Google.

Perché Twitch?

Rispetto a YouTube, che basa la monetizzazione dei suoi creator solamente sulle pubblicità, il sistema che ha creato Amazon per assicurarsi i migliori contenuti è decisamente più remunerativo. Oltre ai classici adv e alle donazioni una tantum, Twitch consente di basare il proprio business su abbonamenti che consentono agli utenti, a fronte di un pagamento mensile, di ottenere benefit di varia natura sul canale a cui ci si è iscritti. Sistema, questo, semplificato dal fatto che è possibile avere un abbonamento gratuito al mese collegando il proprio account Amazon Prime, senza nulla togliere a cui ci si sottoscrive. Questi bonus possono andare dalla possibilità di rivedere le live in differita a meri elementi estetici per la chat, come icone o emoticon. La chat, in effetti, è uno dei punti focali che rende Twitch unico: consentendo l’interazione immediata tra utenti e creator, rende gli show visti in diretta unici e più “vicini” al pubblico, consentendo un maggiore engagement e una più facile fidelizzazione degli spettatori. Il risultato? Un fatturato di 1 miliardo e mezzo di dollari nel solo 2019, di cui 300 milioni provenienti da sponsorizzazioni.

Come se non bastasse, Amazon non si accontenta e ha piani che vanno ben oltre al peer-to-peer streaming per la sua Twitch. La compagnia di Bezos ha già, difatti, acquistato i diritti di  trasmissione della Champions League per tutto il triennio 2021-2024, con l’esclusiva per alcune partite, ed intende promuovere la produzione di format d’intrattenimento di alto livello come game show, reality ed iniziative musicali. È dunque questo il futuro dello streaming e della televisione? Forse è troppo presto per dirlo ma le fondamenta paiono essere state messe e la volontà di far crescere ancora di più la piattaforma è ben presente in quel di Amazon. Non resta che aspettare, magari gustandosi qualche Just Chatting o gameplay live nel frattempo.

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Ambiente, società e tecnologia

Huawei, Amazon e Google: nuove tecniche di formazione in cloud

Amazon e Google (in primis) e Huawei qualche posizione più sotto, hanno registrato un aumento percentuale dei ricavi, come dimostrato dai dati trimestrali della Borsa di Wall Street; risultati ottenuti a seguito del potenziamento dei sistemi di cloud computing o più semplicemente cloud.

Una tecnologia, quindi, essenziale in società sempre più informatizzate dove il numero dei dati condivisi va via via crescendo.

Il periodo esatto in cui tale tecnologia ha raggiunto il suo apice coincide con l’avvento della pandemia da COVID 19 in quanto, quest’ultima, non ha fatto altro che accelerare la Digital transformation. Una prima problematica è legata al rapido aumento delle nuove tecnologie dell’Industria 4.0 (termine coniato durante la Fiera di Hannover del 2011) anche in risposta al cambiamento climatico in atto.

Si evince questo aspetto dal Report 2020 sui lavori del futuro redatto dal WEF (World Economic Forum) incrociando i dati raccolti dalle interviste dei leader aziendali e quelli estrapolati da recenti fonti pubbliche e private; in tale documento si afferma che entro il 2025 più dell’80% dei leader sceglieranno di utilizzare le nuove tecnologie per automatizzare i processi di lavoro (in modo da riuscire a definire un’economia verde), destinando i lavoratori ad un lavoro a distanza e ad una formazione obbligatoria e in linea al cambiamento tecnologico attuato.

Dato che la formazione rivestirà un ruolo centrale, sarà essenziale il ruolo delle persone nella cultura e, in particolare, in un sistema educativo dovrà essere adeguato, disponibile nel minor tempo possibile e facilmente fruibile (indipendentemente dall’area geografica, dalle risorse economiche disponibili e dall’età); e da qui l’altro problema accentuato con la pandemia: il divario nell’erogazione dell’istruzione; infatti, come afferma il rapporto OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) “Education at Glance” del 2020 l’Europa registra i punteggi più bassi nell’iscrizione universitaria a causa di una presenza più massiccia di insegnanti anziani che perseguono una modalità di apprendimento obsoleta rispetto alla rivoluzione culturale in atto.

Un quadro generale doveroso per spiegare i risultati economici raggiunti e gli obiettivi prefissati dai colossi Big Tech Huawei, Amazon e Google: loro vogliono sviluppare dei servizi di formazione in grado di superare rapidamente questi problemi senza perdere di vista l’importanza di riprodurre un’interazione online studente-insegnate molto simile a quella offline e con un occhio di riguardo per quei paesi più in difficoltà in tal senso. Inoltre, i siti sono stati creati in modo accurato in quanto ogni prodotto o servizio offerto (compresa l’architettura usata) sono stati spiegati dettagliatamente offrendo, comunque, un supporto tecnico per ogni tipo di problema. Ma andiamo per ordine.

Huawei Smart Education

Huawei ha deciso di puntare molto sull’infrastruttura più che sulla diversificazione formativa; infatti, come prima distinzione nell’erogazione della formazione propone di scegliere tra un corso online e interattivo (dove il sistema HUAWEI CLOUD Internet RTC garantisce un modello di educazione basato su un’interazione con poco pubblico, mirata e di breve durata),un corso online basato sui video (dove viene utilizzata la tecnologia VOD HD) e un corso dal vivo con una classe di grandi dimensioni (dove si fare uso di un sistema di bitrate HD e di transcodifica).

Nello specifico, incrementa le infrastrutture sulla base del livello di istruzione di riferimento: scuole primarie e secondarie e scuole di istruzione superiore, professionali e imprese; nel primo caso, utilizza reti cloud e attività di O&M per permettere una gestione centralizzata di tutte le reti sparse per il territorio delle scuole primarie e secondarie (in modo da non dover richiedere tecnici sul posto), per la creazione di app mobili per cellulari (così da poter gestire i servizi ovunque e in qualsiasi momento) per l’utilizzo congiunto di Big Data e API che permettono la creazione di interfacce diversificate così da essere adattate ai differenti settori educativi.

Nel secondo caso, invece, vengono utilizzate reti cloud, sistemi di IA e di Big Data per creare un modello di educazione online specifico per ogni studente o lavoratore, in modo da garantire sempre interattività, coinvolgimento e rapidità di apprendimento. I corsi offerti riguardano il cloud computing, i Big Data, il Software Talent Education (un’educazione ingegneristica proiettata all’IT e ai settori emergenti) e l’AI Talent Education (che si basa sulla piattaforma Model Art)

Huawei si impegna anche sul fronte della ricerca offrendo un Network nazionale a banda larga per garantire l’utilizzo dei Big Data nelle tecnologie emergenti riguardanti la rilevazione dei geni, l’analisi geologica e l’osservazione astronomica.

Nessuno rimane escluso in questa iniziativa: anche i professori (assieme ai supporti tecnici) imparano a gestire l’informatizzazione creando piattaforme digitali in linea col sistema educativo vigente, garantendo la creazione di Siti Web, lo sviluppo di APP e l’archiviazione di materiali didattici, video e immagini; e permettendo, inoltre, di definire un piano intelligente di valutazione dei compiti a casa e di apprendere in materia di IA per una migliore esperienza nella didattica.

Amazon Education

Amazon concentra il suo servizio cloud sull’AWS Education ovvero sull’iniziativa volta ad accelerare l’apprendimento del cloud (specifico per ogni tipo di studente) e così migliorare l’assetto delle startup, delle società e di tutti i tipi di organizzazioni; per promuovere tale iniziativa in ambito scolastico, ha creato dei programmi specifici a seconda del soggetto interessato: nel caso di uno studente di scuola superiore, egli potrà valutare le proprie competenze sbloccando dei badge e seguendo dei percorsi professionali nel cloud; nel caso di una persona in età universitaria, essa potrà seguire un programma Cloud Degree per sviluppare un piano formativo di due o quattro anni in cloud computing; nel caso di un docente, egli ha la possibilità di apprendere la materia al fine di aiutare gli studenti in questo percorso (prendendo spunto per attività didattiche originali e giochi con il programma Amazon Ignite e ottenendo rapidamente il materiale scolastico grazie a LMS Integrated Store).

Per persone al di fuori del sistema educativo, Amazon ha pensato ad un evento di due settimane chiamato AWS re:Invent che permette un apprendimento gratuito attraverso un programma personalizzabile e certificato, e webinar con i massimi esponenti del campo.

Per gli studenti delle scuole primarie e secondarie, invece, ha preferito puntare ad un approccio cloud più semplice e giocoso mediante sfide interattive e attività pratiche.

Affinché Amazon possa offrire vantaggio a chi si affida a lui per l’istruzione sul cloud, offre servizi come amazon business e Prime student cosicché studenti e professori possano avere accesso a tantissimi materiali e anche in tempi brevi e con scontistiche più vantaggiose.

Anche Amazon si impegna nel premiare gli studenti più meritevoli con finanziamenti per i loro progetti attraverso il servizio amazon catalyst.

Google For Education E GSuite Enterprise For Education

Google sfrutta software open source e software-defined avanzati, integrati con un sistema di cloud incentrato sui big data e sul machine learning, per garantire risultati rapidi, coerenti e scalabili.

I servizi offerti si dividono tra quelli offerti agli studenti e quelli offerti per la formazione degli insegnanti.

Nel primo caso, attraverso il servizio chiamato Classroom, ciascun studente avrà la possibilità di fruire in contemporanea a tutti quelli della stessa classe di documenti ed elenchi e di rimanere sempre aggiornati attraverso promemoria e riunioni (stabilite dalla professoressa).

Le risorse didattiche offerte, inoltre, permettono un migliore apprendimento dell’alunno attraverso app, guide e programmi per adattare le lezioni in base agli alunni e agli standard educativi, per permettere ai genitori di imparare ad usare il digitale in sicurezza, per condurre esperimenti scientifici analizzando e comparando i risultati, per raccontare storie con la realtà aumentata e molto altro ancora; tali risorse sono classificate in “Programmazione e informatica”, “Strumenti per la creatività”, Alfabetizzazione digitale”, “Coinvolgimento della famiglia”, “Strumenti didattici”, “Lingue, arte e cultura”, “Strumenti per tutta la scuola” e “Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica”.

Inoltre, per avvicinare all’informatica anche ai meno appassionati, sono stati realizzati programmi specifici e semplificati, in contrapposizione ai corsi più professionali legati ai big data machine learning, allo spazio di archiviazione e networking, all’automazione e alla gestione delle API.

Google, però, non tralascia ambiti come la ricerca (per la quale offre borse di studio per usufruire gratuitamente di tutti i prodotti Google Cloud) e ambiti legati alla musica, alla moda e ai videogiochi (attraverso il corso gratuito Google CS First).

Nel secondo caso, invece, Google concentra l’attenzione sulla formazione degli insegnanti in ambito informatico dandogli anche supporto tecnico nella gestione dei vari servizi; inoltre, grazie al Transformation Center di Google for Education, gli insegnati possono accedere a casi reali su come altri docenti hanno creato una cultura tecnologica nel loro istituto e su come hanno realizzato programmi efficaci per lo sviluppo professionale.

Infine, Google ha previsto delle sessioni personalizzate di formazione aziendale (tenutesi ad Ottobre 2020) per i paesi più indietro come Europa, Medio Oriente e Africa.

Tre colossi, tre offerte abbastanza simili e davvero essenziali ma che gettano ancora ombre sull’eventualità di un aumento della dipendenza tecnologica e sulla possibilità che i dati sensibili a loro concessi non siano sicuri. Tutti timori a cui Huawei, Amazon e Google hanno risposto redigendo guide e soluzioni per un uso mirato e intelligente della tecnologia e dedicando sezioni dei loro siti per parlare dell’efficienza del loro cloud in materia di sicurezza; ma il riscontro è stato tutt’altro che positivo.