< Torna indietro
Entertainment, videogame e contenuti

Podcast: la voce è più forte di uno schermo

Da qualche anno è in corso una rivoluzione dei contenuti online, silenziosa ma costante, che sta cambiando non solo la loro forma ma anche le modalità in cui vengono fruiti. In particolare, il formato podcast, in particolare, si sta dimostrando uno dei media più efficaci ed efficienti: sia che si parli di informazione, di intrattenimento o di pubblicità, il podcast riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore fidelizzandolo e cambiando le sue abitudini, anche grazie alla sua capacità di “accompagnarlo” nelle attività quotidiane.

Dove vuoi e quando vuoi

Ma partiamo dal principio, che cos’è un podcast? Stando alla definizione fornitaci dal dizionario Treccani, un podcast è un “file audio digitale distribuito attraverso Internet e fruibile su un computer o su un lettore MP3”. Sono, quindi, contenuti audio che si distinguono dagli altri, come quelli radio, per essere asincroni, on demand, offline e nomadici. Queste caratteristiche da sole potrebbero bastare per intuire l’origine del successo dello strumento negli ultimi anni. La potenza del podcast risiede nella sua capacità di accompagnare l’ascoltatore mentre svolge le sue attività quotidiane e senza togliergli tempo: la natura audio, infatti, non necessita di nessun altro supporto fisico (oltre ad un paio di cuffie se non si è a casa), mentre il cellulare può comodamente rimanere in tasca lasciando libere mani e sguardo. Va da sé che il formato podcast si adatti naturalmente a uno stile di vita flessibile e che possa essere fruito pressoché ovunque, senza necessità di nessuno schermo, e quando si vuole, dato che la maggioranza delle piattaforme consente il download dei file audio. Tutto ciò è stato confermato da una ricerca di Crowd DNA e Spotify, secondo cui con i podcast “si ottengono le stesse informazioni che si otterrebbero tramite la lettura” e che evidenzia come un ascoltatore su tre dichiari di ascoltare podcast perché non ha uno schermo a portata di mano.

Creare community con la voce

Come scrive Gaia Passamonti nel suo libro “Podcast Marketing”, esiste un “podcast per ogni cosa e a ciascuno un suo podcast”. La reale forza dei podcast sta, infatti, nella grandissima varietà di temi in cui possono essere declinati e, di conseguenza, nella possibilità di creare community affiatate e con alto engagement, persino per i temi più di nicchia. Per far ciò è, senza dubbio, determinante la bravura dello speaker/conduttore e la qualità del sound design: entrambe le caratteristiche concorrono al successo di un podcast poiché sono in grado di creare empatia con gli spettatori e modellare atmosfere e sensazioni. La fidelizzazione verso il programma si va, così, a sviluppare in senso di appartenenza vero e proprio e a stimolare la discussione tra gli ascoltatori stessi. Non stupisce, quindi, che il modello della serialità, che negli ultimi anni ha scoperto nuova luce con le serie TV di Netflix e delle varie piattaforme di streaming, venga riproposto anche sotto forma di podcast con grande successo, come dimostrano esperimenti come Veleno di Pablo Trincia. Non è un segreto, infatti, che nelle nicchie si trovino spesso gli ascoltatori più fedeli e assidui e che, quest’ultimi, non solo richiedano un contenuto di lunga durata ma, anzi, ormai lo ritengano la normalità quando si parla di podcast. Basti pensare che, secondo una sintesi delle ricerche di Nielsen ed Edison, il tempo medio di ascolto settimanale è di 6 ore e 32 minuti ad ascoltatore, distribuite su 7 podcast seguiti. Da notare come solamente il 19% degli ascoltatori aumenti la velocità di ascolto e l’80% ascolti puntate intere senza interromperle. Questi ultimi due dati sottolineano come anche la capacità di creare atmosfere ed empatia faccia parte della domanda e non solamente il contenuto in sé. Inoltre, gli ascoltatori di podcast sono molto attivi sui social ed in grado di alimentare word-of-mouth, il che, inevitabilmente, li rende per le aziende dei soggetti strategici a cui mirare.

Cos’e’ un branded podcast?

Come abbiamo visto, i podcast sono in grado di creare un’utenza altamente fidelizzata, molto attenta e con un legame speciale, oserei dire quasi fiduciario, con la voce narrante dei propri programmi preferiti. Non stupisce, quindi, che, secondo le ricerche di Spotify, circa “l’81% degli ascoltatori ha intrapreso un’azione dopo aver ascoltato un annuncio audio durante un podcast”. Nonostante questi dati si riferiscano al mercato americano, decisamente più sviluppato e maturo del nostro, il potenziale dei podcast è applicabile anche al nostro territorio e, non a caso, molte aziende stanno cercando di approcciare il mondo dei cosiddetti “branded podcast”. Quest’ultimi sono, come li definisce la già citata Gaia Passamonti, “contenuti audio originali, fruibili in formato MP3 in streaming o in download sui device degli ascoltatori, prodotti da un brand o da un’azienda all’interno della propria strategia di marketing”. Sono, quindi, una forma più evoluta dei semplici ads in formato audio. Hanno lo scopo di fornire agli ascoltatori una prospettiva interessante su un tema a loro caro senza, necessariamente, finalità di vendita ma andando, però, a potenziare lo storytelling aziendale e la reputazione del brand. Esempi di branded podcast italiani sono “Prime Svolte” di Mini, rilasciato in concomitanza del lancio della loro prima automobile completamente elettrica e incentrato sull’importanza delle prime volte, e “Milano, Europa” il podcast di Francesco Costa che racconta la Milano del futuro realizzato per l’azienda immobiliare EuroMilano.

Lo stato del mercato italiano

Abbiamo già notato come il mercato dei podcast in generale non sia ancora molto sviluppato nel nostro Paese, tuttavia i trend sono incoraggianti. Stando a una ricerca di IPSOS, il 30% degli italiani ha ascoltato almeno un podcast nell’ultimo mese (+4% rispetto al 2019), il 52% di questi è under35 ed il 22% è laureato. Interessante notare come il 77% degli intervistati ascolti podcast mentre fa altro, il 12% mentre si rilassa e solamente l’11% non fa nient’altro durante l’ascolto. Da segnalare anche la crescita del 9% nell’utilizzo degli smart speaker per l’ascolto dei podcast, che arriva ad attestarsi al 15%. Percentuale, comunque, ben lontana dal 48% degli smartphone. Per quanto riguarda l’aspetto pubblicitario, invece, ben il 61% ricorda gli spot ascoltati durante un podcast ed il 49% ricorda l’azione svolta a seguito dell’ascolto (per lo più ricerche sui social). Questi dati mostrano come la crescita del nostro mercato, sebbene ancora distante da quello statunitense dove gli ascoltatori sono quasi il 60% della popolazione e la diffusione è ormai capillare persino nella fascia over50 con un incremento di oltre il 29%, sia ormai sostenuta e di come i podcast siano destinati a radicarsi nella cultura popolare anche in Italia. Ciò è stato possibile soprattutto grazie all’alta qualità di molti dei contenuti realizzati in italiano. Sia che si parli di narrazioni giornalistiche circoscritte come “Risciò” di Giada Messetti e Simone Peranni o “Da costa a costa” di Francesco Costa, di appuntamenti quotidiani come il “Daily Cogito” di Rick Dufer o di news come “Start” del Sole 24 ore, il mercato italiano è già in grado di offrire un grande varietà di contenuti per tutti i gusti. Sta a voi scegliere quale fa al caso vostro, indossare le vostre cuffie, ascoltare e… continuare a fare quello che stavate facendo.

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Biovaproject: dal pane invenduto alla birra, un brindisi contro lo spreco alimentare

Andare a prendere il pane invenduto dal panettiere locale o al supermercato, macinarlo e ricavarne birra che poi verrà venduta negli stessi negozi che hanno fornito il loro pane avanzato. Questo è ciò che da un anno a questa parte fanno i ragazzi di Biova, una startup piemontese che ha dichiarato lotta allo spreco alimentare con il motto: “la birra non avanza mai, il pane purtroppo sì” e i numeri lo possono confermare: 1300 tonnellate di pane avanza in tutta Italia ogni giorno.

Abbiamo deciso di intervistare Franco Dipietro, Founder e CEO di BiovaProject che ci ha raccontato come è iniziato questo progetto di economia circolare, come si immaginano in futuro, ma anche le difficoltà che un’iniziativa impegnativa quale una startup possono portare.

Franco, domanda semplice per iniziare, sempre presente quando si parla di idee innovative, come vi è venuto in mente questo progetto?

“L’idea è arrivata pian piano a partire da un percorso di comunicazione e marketing che abbiamo portato avanti negli ultimi anni verso delle onlus, cominciando a frequentare il loro ambiente, nella fattispecie quelle che si occupano del recupero alimentare. é stato proprio da lì che abbiamo capito l’enormità della questione, nello specifico di quella del pane considerato da sempre l’incubo di queste organizzazioni dato che purtroppo ne avanza tantissimo ed è molto difficile da rimpiazzare in beneficenza, anche regalandolo non si riesce a non buttarne via, data l’inimmaginabile quantità. Fatte queste osservazioni, sapendo che esiste un modo per fare birra dal pane, abbiamo semplicemente unito le due cose creando un modello di business capace di andare a recuperare questi sprechi.”

Quali sono le difficoltà maggiori che state affrontando o che avete affrontato?

“La difficoltà non è assolutamente quella di trovare pane avanzato, come ho detto ce n’è tantissimo e fare la birra da esso di per sé non è un problema, la vera difficoltà è fare in modo che arrivi in tempo utile, andando ad intercettarlo al momento giusto per essere trasformato e quello è ciò che va studiato e messo in regola, proprio questa è la forza di Biova Project: andare a perfezionare il modello logistico di recupero, ancora in sviluppo.”

Avete degli obiettivi a lungo termine? Come vi vedete tra 10 anni?

“Per il momento stiamo operando nel nord-ovest dell’Italia tra Piemonte, Liguria e Lombardia, molto di più di alcuni nostri competitor che lo fanno a livello di quartiere, noi facciamo anche quello, ma cercando di espanderlo ad un livello più ampio. Se vogliamo guardare sul lungo termine, il nostro piano chiaramente è aumentare il valore della società e la sua capacità di recupero, l’obiettivo principale per noi è “salvarne” il più possibile, ci piacerebbe ampliarci, prima sul territorio nazionale e poi, perchè no, in futuro anche internazionale, insomma siamo un po’ all’inizio per dirlo ma l’idea c’è.”

Hai un’avventura da startupper, un momento particolare di questa crescita che porti nel cuore?

“Anche se siamo ancora agli albori, penso che la cosa più bella sia l’interesse che si è creato sia a livello di istituzioni, sia a livello dei singoli; il piacere vero è quando ti scrivono ragazzi come te a cui piacerebbe intervistarci ritenendo che l’idea sia bella, e per fortuna di persone così ce ne sono tante, questa è la soddisfazione principale per adesso; perchè posso assicurare che portare avanti una startup vuol dire avere 10 milioni di problemi attorno.”

Quali sono stati se ne avete ricevuti, i no di questa vostra avventura?

“Non abbiamo ricevuto pareri sconfortanti, sotto questo punto di vista, anzi, sono tutti molto disponibili ad aiutare, l’argomento alla fine è incontestabile. Capita però, a volte, di incontrare qualcuno che la vede solo dal punto di vista puramente economico e non gli interessa davvero l’ideale, magari ti ascolta per il progetto e poi lo fa alle spalle, in un’ottica totalmente diversa dunque. La parte più fastidiosa è forse questa perchè frazionare il progetto significa farlo funzionare meno, non di più e ciò va contro la nostra missione.”

Il lavoro da fare è ancora tanto, ma le soddisfazioni stanno arrivando: Biova è tra le migliori startup italiane di quest’anno, tra le prime 77 della classifica di B-Heroes definite “le magnifiche 77” e ancora con tanti obiettivi davanti. Iniziative come questa fanno capire come ci sia molta voglia di cambiare alcune abitudini dannose per l’economia e l’ambiente, come la questione dello spreco, ce la faremo dunque a ridurlo sempre di più?

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Pedalare sulla Notte Stellata di Van Gogh: arte ed ecosostenibilità

Vicino Eindohoven, in Olanda, precisamente nella cittadina di Nuenen, è stata realizzata una pista ciclabile illuminata da ciottoli fosforescenti incorporati nel manto stradale, i quali di giorno assorbono la luce solare per poi rilasciarla di notte illuminando il percorso. L’effetto voluto è quello di ricreare l’atmosfera della celeberrima opera d’arte “La notte stellata” dell’artista olandese Van Gogh, omaggiando così la sua arte in uno dei luoghi in cui l’artista stesso ha vissuto un periodo della sua vita.

Van Gogh path

Nata dall’idea del designer olandese Daan Roosegaarde, “Van Gogh Path” è il nome di questa innovativa pista ciclabile, progettata in occasione del “Van Gogh 2015 International Theme Year” dedicato ai 125 anni dalla scomparsa dell’artista e successivamente inaugurata il 13 novembre dello stesso anno. Daan Roosegaarde, con la collaborazione di Heijmans Infrastructure, è riuscito a realizzare un asfalto smart con macchine road printer: le luci sono interattive, la vernice utilizzata è dinamica, si ricarica durante il giorno e la sua autonomia può arrivare fino ad 8 ore. La strada, lunga un chilometro, è stata realizzata con migliaia di pietre scintillanti dotate di luci a LED ad energia solare e di tecnologia glow-in-the-dark. Di notte, la pista si illumina offrendo uno spettacolo mozzafiato, gradito da turisti, residenti e soprattutto dai ciclisti. Dotata di ulteriori luci a LED in alcuni punti del percorso che garantiscono luce supplementare nel caso in cui le pietre non si siano caricate a sufficienza durante il giorno, la sua illuminazione non interferisce con l’ambiente circostante, né reca disturbi visivi ai ciclisti stessi, i quali si ritrovano immersi in una pedalata sulle stelle di Van Gogh.  Aggiungendosi alla pista già esistente lunga 335 chilometri, questo nuovo tratto collega due mulini a vento, in un percorso che permette di visitare i luoghi della vita del noto artista olandese.

Smart highway…

Quest’opera è la seconda di cinque segmenti che rientrano nel progetto “Smart Highway” dello Studio Roosegaarde, laboratorio di progettazione sociale che con il suo team di designer ed ingegneri professionisti ha sede in Olanda e a Shangai. L’obiettivo è quello di rendere le strade intelligenti, interattive e rispettose dell’ambiente, sfruttando la luce del sole, l’energia e la segnaletica stradale.

…e tecno-poesia

Il risultato di questo lavoro? Una pista ciclabile innovativa ed ecosostenibile, che combina arte e sostenibilità ambientale, attraverso soluzioni tecnologiche all’avanguardia, promuovendo ancora una volta la mobilità eco-sostenibile con l’utilizzo delle biciclette, tipiche dell’Olanda. Tutto ciò viene definito dall’artista e designer “tecno-poesia”, ovvero la tecnologia combinata con l’esperienza attiva.

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Cosa sono le CBDC, il nuovo strumento delle Banche Centrali

Questo anno le più importanti banche centrali hanno accelerato nella direzione dell’emissione di una propria moneta digitale.

Un fenomeno prevedibile, dato che già da alcuni anni e in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008 stiamo assistendo all’introduzione di strumenti di pagamento alternativi alle banconote quali i Bitcoin e altre cripto valute (o valute virtuali) che non sono emesse da banche centrali né sono da loro regolamentate, dipendono infatti da un sistema crittografato, le transazioni sono registrate in un libro mastro condiviso in rete (meccanismo alla base della blockchain) e il loro valore varia in base alla domanda e all’offerta. Vengono utilizzate sia come mezzo di pagamento che riserva di valore. Gli scambi di queste valute avvengono però in anonimato e ciò comporta il rischio che possano essere utilizzate per riciclaggio, pagamenti in nero e traffici illeciti.

Come riportato da Alberto Monteverdi in una nota per l’ISPI, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, da alcuni anni le banche centrali valutano l’emissione di una moneta di banca centrale digitale, avente quindi corso legale al contrario delle valute virtuali, da rendere disponibile a cittadini e imprese e attualmente sono in corso vari progetti di studio e sperimentazione.

Europa – BCE

La Banca Centrale Europea ha avviato una consultazione pubblica che termina il 13 gennaio per raccogliere pareri e suggerimenti da istituzioni, cittadini ed esperti del settore finanziario in vista di una possibile sperimentazione pratica da avviare nel 2021 per verificarne la fattibilità tecnica. Sul sito ufficiale si evince che l’obiettivo della BCE è quello di introdurre una moneta digitale che affianchi il contante e i depositi, che permetta di creare sinergie con il settore dei pagamenti, che sostenga il processo di digitalizzazione nell’economia europea, che sia inclusiva permettendo anche a chi non possiede un conto corrente di potervi accedere ed evitare l’utilizzo di strumenti di pagamento non regolamentati o il ricorso a valute estere.

Stati Uniti – FED

Lael Brainard, economista e membro del consiglio dei governatori della Federal Reserve, ha tenuto un discorso nel quale afferma come i Bitcoin e le altre valute virtuali abbiano sollevato questioni sulla salvaguardia delle norme e della legalità, sulla stabilità finanziaria, la privacy e in oriente la Cina si sta muovendo rapidamente verso l’introduzione di una sua moneta digitale. Considerati tutti questi cambiamenti, la FED sta conducendo ricerche ed esperimenti per una sua CBDC (central bank digital currency) che possa offrire maggior velocità ed efficienza nei pagamenti, una maggiore inclusività finanziaria e minori costi per gli utenti finali, ricordando l’importanza che ha il dollaro a livello globale. È attualmente in corso una collaborazione tra la Federal Reserve di Boston e i ricercatori del Massachussetts Institute of Technology per esplorare l’uso di tecnologie nuove ed esistenti, oltre a collaborazioni con altre banche centrali e il BIS Innovation Hub per condividere ricerca ed esperienze dal momento che i sistemi finanziari globali sono estremamente legati gli uni con gli altri.

Gli Stati Uniti non puntano sulla velocità, e lo sottolinea il presidente della FED Jerome Powell in una videoconferenza tenuta dal FMI: “È più importante per gli Stati Uniti fare bene che fare per primi”.

Svezia – RIKSBANK

Anche la Banca Centrale della Svezia ha avviato un progetto pilota di sperimentazione per la sua e-krona (corona digitale) che si basa sulla tecnologia della blockchain, in collaborazione con la nota compagnia di consulenza Accenture e che terminerà a fine febbraio 2021.

Cina – PBC

Dopo anni di ricerca la Cina questo anno ha avviato una sperimentazione per uno Yuan digitale in alcune città del paese, offrendo un bonus per gli acquisti in alcuni negozi per incentivare l’uso di strumenti di pagamento elettronici tra i cittadini. I cinesi utilizzano ampiamente e da tempo strumenti di pagamento elettronici come le popolari piattaforme Alipay e WeChat Pay ma essendo in mano a privati sfuggono al pieno controllo del governo. La CNN afferma in un articolo che gli obiettivi della Cina sono essenzialmente controllare ulteriormente come i cinesi spendono i loro soldi, sorvegliare l’economia e la società, svincolarsi dalla stretta che gli Stati Uniti hanno sul sistema finanziario globale. E spera che una moneta digitale possa adempiere a tutto ciò.

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Concerti 2.0 é possibile gustarsi la musica in epoca di distanziamento?

In tempi di pandemia, ciò di cui si sente maggiormente la mancanza sono i momenti di svago, è possibile ritrovare quegli attimi dedicati al solo piacere di ascoltare la musica?

Dal punto di vista dell’ascoltatore, la via più immediata per rimanere in contatto coi propri artisti preferiti sono i social network come Facebook o Instagram.

Grazie agli strumenti messi a disposizione dalle varie piattaforme, come ad esempio la sezione domande delle instagram stories, possono nascere interazioni dirette tra il fan e l’artista.

Cosa che durante i concerti invece non è possibile, perché l’artista si interfaccia col proprio seguito in maniera collettiva, mentre nei social network l’interazione avviene con tanto di nomi e cognomi, quindi diventa automaticamente più personale.

Concerti in streaming : Fino a che punto la tecnologia può sostituire l’interazione umana?

A-Live é l’applicazione che cerca di riprodurre il più fedelmente possibile l’esperienza del concerto, sia per gli spettatori che per gli artisti.

L’aspetto più interessante di questa applicazione dal punto di vista dell’artista è la possibilità di interagire col pubblico, ricreando a tutti gli effetti una platea virtuale,che partecipa attivamente all’evento.

Si possono organizzare tour virtuali per rimanere a contatto con le vare community, il servizio di geolocalizzazione permette di filtrare l’evento per aree geografiche, e questo permette di simulare l’emozione che provano i fans quando sanno che il gruppo suonerà in quella particolare città.

All’inizio o alla fine dell’evento è inoltre possibile creare stanze virtuali per incontrare i fan, emulando l’esperienza dei meet and greet oppure la casualità di incontrare qualche membro che sta firmando autografi.

Il vero divertimento di questa app però è tutto dedicato allo spettatore:i social buttons  permettono di ricreare quelle interazioni che nate spontaneamente dal pubblico per manifestare tutto l’entusiasmo e l’energia del momento.

In primo luogo é possibile scattare selfie direttamente dall’applicazione, ed essi saranno poi trasmessi sul videowall del palco, proprio a fianco dell’artista.

L’opzione clapping permette di simulare il suono del battito delle mani e della folla che applaude.

Per simulare l’iconico gesto dell’accendino acceso durante il concerto, vi è l’azione dedicata che aumenta e diminuire la luminosità della foto dell’utente e trasmette il tutto sullo videowall del concerto.

Due eventi si sono potuti svolgere grazie a questa applicazione:

Lo scorso 6 settembre, all’Arena di Verona, si è tenuto Heroes, un evento che ha coinvolto ben 34 artisti di musica italiana ed è durato cinque ore.

Il nome dell’evento è ispirato all’iconico brano di David Bowie, ha coinvolto artisti come Achille Lauro, Fedez, Coez, Marracash, Nitro, i Pinguini Tattici Nucleari e tanti altri.

Il ricavato dell’evento è stato devoluto a sostegno di tutti i lavoratori dell’industria musicale come gesto di solidarietà.

Anche i Lacuna Coil hanno voluto aggregarsi a questa iniziativa e riportare qualche evento nella scena Metal italiana.

Black Anima: Live from the Apocalypse questo è l’evento creato in occasione dell’anniversario dell’omonimo album.

La band ha suonato live all’Alcatraz di Milano, ed è stato un vero e proprio concerto, con tanto di luci e scenografia sul palco, e tramite dei tecnici specializzati in suono e streaming, si è cercato di rendere verosimile l’esperienza come se il pubblico fosse davvero presente.

Il pubblico invece riguardo i concerti in streaming ha opinioni discordanti, c’è chi ritiene che l’esperienza un mero placebo e aspetta di godersi la musica dal vivo, e chi invece si accontenta dello streaming in quanto non ci sono alternative migliori.

Concerti Drive In

Keith Urban negli Stati Uniti prova a proporre questa modalità alternativa di vivere l’esperienza della musica dal vivo e si propone in maniera inaspettata.

Il cantante country a sorpresa di tutti, lo scorso maggio, ha deciso di organizzare un concerto drive in a Nashville per ringraziare i medici e tutti coloro che lavorano nel settore della salute.

L’evento ha coinvolto 120 vetture e 200 spettatori, l’intento era provare a riportare in auge una modalità di intendere gli eventi che in epoca di distanziamento sociale potrebbe risollevare gli animi degli spettatori.

Attualmente in Italia non si è ancora assistito ad iniziative di questo genere, ma niente esclude che non si possa verificare in futuro.

Come potrebbero reagire i fan a questa proposta?

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Golee, la soluzione per la trasformazione digitale del calcio: intervista a Felice Biancardi

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Federico Biancardi, Presidente e Co-fouder di Golee, startup innovativa vincitrice già di diversi premi, tra i quali il Qatar Sportstech 2019 e la Startup Competition 2020 di Confindustria Giovani Nazionale, e il cui obiettivo consiste nell’accelerare la digital trasformation del mondo del calcio.

Felice, iniziamo con il delineare il contesto all’interno del quale agite: com’è composto, quali sono gli elementi che lo caratterizzano/contraddistinguono e quali sono le sue criticità?

“Noi oggi siamo verticali nel mondo del calcio. Bisogna considerare che il 95% delle società sportive non ha accesso a tecnologia per il loro lavoro quotidiano. Questo vuol dire che la maggior parte delle innovazioni sono per le società grosse della Serie A: hanno dai droni alle webcam che costano centinaia di euro a magari partner o fornitori come Microsoft o Oracle, quindi grandissimi brand. Per il resto del mercato c’è davvero poco e pochissime startup o aziende che occupano dei servizi che aiutano appunto queste società a digitalizzarsi e a strutturare meglio la loro operatività quotidiana. Abbiamo pertanto creato una piattaforma che digitalizza tutte le operazioni amministrative, quindi tutto quello che viene fatto in segreteria dalla mattina alla sera, le attività finanziarie (la gestione delle entrate e delle uscite, il bilancio prima nota, ricevute, fatture), operazioni marketing e la parte sportiva. Sportiva intende tutte quelle attività legate al campo che ad oggi vengono gestite, un po’ come tutto il resto, con carta e penna o al massimo su Excel.”

Quali sono stati gli effetti del Covid-19 su questo settore?

Come si è visto quest’anno la maggior parte del mondo dello sport si è fermata, a parte la Serie A che comunque ha subito grossi danni. Le società sportive, senza più introiti, in tantissime sono fallite e altre semplicemente non possono lavorare. Ci sono ragazzi che non giocano a calcio da febbraio dell’anno scorso. Il settore è stato completamente stravolto e ammazzato dal virus, in attesa di riprendersi, come un po’ tutte le società sportive di qualunque tipologia di sport. A parte alcuni sport individuali, per brevi periodi, è stata veramente una mazzata.

Cosa vi differenzia rispetto ad altri soggetti operanti nel settore?

La maggior parte delle realtà offre servizi diversi, non tanto alle associazioni sportive quanto ai grandi club di Serie A, della Premier o della Liga. Nel nostro mondo, il famoso 95% di tutte le società, ci sono pochissime realtà che offrono servizi digitali e spesso sono molto verticali in specifiche attività. Noi invece integriamo in un’unica piattaforma un gestionale amministrativo, sportivo e finanziario, siti web automatizzati, e-commerce pronti all’uso, applicazioni per allenatori e per atleti. Il vantaggio, ovviamente, è che riusciamo ad avere economie di scala abbastanza elevate, più rapidi nell’acquisizione del cliente ed un pubblico più ampio di clienti. Inoltre, la società sportiva si trova più a suo agio con un unico fornitore, che garantisce un servizio qualitativamente più alto e servizi integrati tra loro. È un approccio alla Microsoft, diciamo.”

Quante società sportive avete raggiunto fino ad ora?

Da settembre 2018, momento in cui abbiamo lanciato la piattaforma a livello commerciale, abbiamo raggiunto 1400 società sportive, che vuol dire il 10% del mercato calcistico italiano, di cui l’85% l’abbiamo ottenuto durante il Covid. L’impennata in questa fase è data fondamentalmente dal fatto che abilitiamo le società sportive a poter lavorare da remoto. Di solito sono abituati a fare tutto quanto con carta e penna o utilizzando Excel, poi da un giorno all’altro si ritrovano a dover stare a casa. Come fanno a lavorare? Noi eliminiamo completamente i passaggi cartacei per le loro attività e gli diamo la possibilità di comunicare con tesserati, genitori e tifosi.”

Qual è la vostra strategia di comunicazione?

“Abbiamo diversi canali. Il primo canale di comunicazione è sicuramente la Federazione. Abbiamo delle partnership esclusive con federazioni della FIGC locali. Li sponsorizziamo, gli diamo gli strumenti per comunicare con le società sportive e tutte le società sportive in una determinata zona geografica che hanno Golee possono interagire e scambiare documenti con la propria federazione. Questo è il modo per noi per avere tanta pubblicità e per far sì che addirittura le federazioni usino il nostro programma. Inoltre, facciamo molta pubblicità online. Il marketing online è un qualcosa che pensavamo che in questo mondo all’inizio non avesse tanto spazio. In verità dall’ultimo anno, grazie al Covid, tutti quanti hanno imparato ad utilizzare un computer. Sembra assurdo ma è così: molti non usavano o non sapevano neanche cosa fosse Zoom invece adesso tutti quanti, presidenti e società, sanno usarlo. Il marketing online va molto bene e a costi bassissimi riusciamo a fare una bella penetrazione di mercato, con un boarding medio di almeno 25 società al mese soltanto dal marketing online che comunque abbiamo sperimentato da poco e abbiamo iniziato e stiamo perfezionando.

Il terzo canale di comunicazione è rappresentato dalle collaborazioni con terze parti, come Tuttocampo, Calciatori Brutti o altri partner o giornali locali con i quali facciamo del marketing più social o geo-localizzato, in maniera diversa in base anche ai prodotti che abbiamo.”

Quali difficoltà e/o resistenze avete riscontrato e state riscontrando durante il vostro percorso?

“In termini di difficoltà, bisogna considerare il fatto che il mondo dello sport è molto arretrato e costituito da volontari. Persone che non sono abituate a lavorare in maniera professionale e quindi i nostri strumenti inizialmente possono non essere capiti. Bisogna spiegarlo con un attimo di pazienza, poi quando lo capiscono sono entusiasti.  È come mio padre che fino a qualche anno fa mi diceva: “Felice, ma tanto è inutile, io l’iphone non lo utilizzerò mai, il telefono lo uso solo per le chiamate” invece oggi mio padre usa l’iphone più di me. Diciamo pertanto che la prima barriera è data dal non sapere che ci sono strumenti digitali, come dovrebbero essere utilizzati o quali sono i benefici.

Il 30 Novembre 2020 avete lanciato una campagna di crowdfunding su Backtowork: come investirete le risorse raccolte?

“La campagna l’abbiamo chiusa prima di Natale, in 20 giorni. In verità questa è soltanto una parte dei soldi che vogliamo raccogliere, però ci ha fatto tantissima pubblicità che ci serviva anche per una questione di marketing. Le risorse raccolte saranno spese soprattutto nel 2021 per due obiettivi. Uno è sicuramente il consolidamento del team, in quanto abbiamo bisogno di una batteria di programmatori più ampia e abbiamo bisogno di maggior budget per venditori. Conseguente anche al prendere nuovi programmatori sarà sicuramente il prodotto. Dobbiamo sviluppare delle parti del prodotto che sono molto avanzate, come i sistemi di pagamento: consentire a tutte le nostre associazioni sportive di far pagare i loro tesserati non più con bonifici o in cash, ma dando a tutti la possibilità di pagare con la carta di credito, tramite addebito diretto, pagamento a rate, farli pagare in maniera semestrale.

L’integrazione di marketplace, quindi il poter agire da distributori per le nostre società e vendere digitalmente centinaia di prodotti che acquistano loro tutti gli anni: palloni, conetti, porte, gli strumenti per i portieri, guantoni, sacche sportive. Agendo da distributore, riusciamo ad avere un rapporto qualità prezzo migliore.

In merito invece al futuro, quali sono le vostre prospettive a livello nazionale ed internazionale? State anche pensando di esplorare altri sport?

“A livello nazionale, entro fine 2021, vogliamo arrivare ad almeno 5 mila società sportive. Questo ci permetterà di essere, a livello di numeri, il più grande in Europa nel nostro settore. Come prospettive europee, quest’anno sarà la conquista dell’Italia e verso fine 2021 inizieremo a redigere delle strategie di internazionalizzazione che andranno intorno al mercato spagnolo, portoghese e francese. Ad oggi abbiamo iniziato dal calcio perché, in termini di numeri, è più grosso di tutti gli altri sport messi insieme. L’effort che abbiamo per entrare nel mondo del calcio è sì paragonabile agli altri sport però, come detto, ci porta molti più numeri e pertanto, anche per una questione di dispersione delle energie, siamo focalizzati su questa verticale.

Questo non vuol dire che non apriremo ad altri sport. La nostra piattaforma in verità già è pensata e ha già funzionalità multisport. Non lo stiamo spingendo perché non ci conviene, in termini di costi-benefici, però lo faremo sicuramente a breve, non so se quest’anno o l’anno prossimo.”

< Torna indietro
Entertainment, videogame e contenuti

Fortnite: un successo miliardario giocabile gratuitamente

Oggi, quando si parla di videogiochi recenti, non si può che menzionare il fenomeno Fortnite. Il free-to-play Battle Royale è stato pubblicato ormai tre anni fa ed, ormai, è diventato un vero e proprio fenomeno pop, con introiti nell’ordine dei miliardi di dollari e collaborazioni con i più grandi brand internazionali. Tutto ciò partendo da un videogame che chiunque può giocare gratuitamente. Come è stato possibile? Proviamo ad indagarlo in questo articolo, dalle origini ai sistemi di marketing con cui Epic Games ha deciso di capitalizzare l’enorme successo del gioco.

Un po’ di storia

Ma facciamo un passo indietro, come è nato il successo di Fortnite? La cosa interessante è che Fortnite è basato su un fallimento. Il gioco fu, infatti, originariamente presentato nel 2011 come un misto tra le meccaniche di Minecraft, il celebre videogame di costruzioni, e di Left 4 Dead, uno sparatutto horror in terza persona. Graficamente e iconicamente, Fortnite era già Fortnite: quel che mancava era la sostanza. Si trattava di un normale, tra l’altro a pagamento, gioco a squadre di quattro in cui divertirsi costruendo fortezze, cercando armi e sconfiggendo mostri. Nessuna componente competitiva online era prevista. Tuttavia, il prodotto in questo stato fu accolto con freddezza e lo sviluppo dello stesso si prolungò per altri sei anni. In quel lasso di tempo, l’industria videoludica si stava ormai muovendo verso una concezione del gioco come “servizio” fin lì inedita o, quantomeno, di nicchia. Concezione che andava, inevitabilmente, a preferire i free-to-play, così sono detti in gergo i giochi scaricabili gratuitamente, perfezionabili “in corso d’opera” tramite aggiornamenti e patch, piuttosto che prodotti finiti venduti a un prezzo fisso (per lo più nei negozi fisici). Presa la decisione di virare su questo modello di business, fu integrata l’ormai celebre modalità Battle Royale, consistente in partite, in singolo o a squadre, a cui partecipano 100 persone e in cui è possibile muoversi liberamente per una mappa particolarmente ampia, cercando armi, strumenti e risorse, con l’obiettivo di essere l’ultimo giocatore sopravvissuto. A onor della cronaca, Fortnite non ha inventato nulla: il genere era già famoso ai tempi, tant’è che gli stessi sviluppatori hanno più volte ammesso di essere fan di PlayerUnknown’s Battlegrounds, vero fondatore del genere di successo. Ma come accade spesso, non sempre la Storia premia il primo arrivato.

Come può un gioco gratuito produrre così tanti introiti?

Alla fine la promessa fu mantenuta e Fortnite fu pubblicato come Battle Royale free-to-play su praticamente ogni piattaforma e console possibile. Il gioco, per come era stato concepito originariamente, esisteva ancora ma come modalità secondaria a pagamento, denominata “Save the World”: decisamente trascurabile sia per quanto riguarda la popolarità che per gli incassi. Con i suoi 129 milioni di download globali e 6 milioni di utenti attivi mensilmente (per lo più ragazzi sotto i 24 anni), si stima che Fortnite – Battle Royale attualmente frutti, in media, più di tremila dollari al minuto a Epic Games, publisher del videogame, per un totale di oltre 1 miliardo di incassi solamente negli ultimi due anni tramite acquisti in-app. Eppure è possibile giocare a Fortnite senza mai effettuare nessun pagamento e senza subire, di conseguenza, alcun malus. Nel gioco, infatti, è consentito acquistare solamente elementi estetici, come skin (i costumi dei vari personaggi) o oltri elementi decorativi come picconi o deltaplani, spendendo V-Bucks, la monetà virtuale del gioco – ovviamente a sua volta acquistabile caricando soldi reali sul proprio account. Nulla che modifichi in alcun modo il gameplay o che dia vantaggio rispetto agli altri giocatori, ciò nonostante funziona e, a riprova di ciò, sembrerebbe che il 70% dei giocatori abbia effettuato almeno un acquisto in-app, con una media di 102 dollari spesi a testa, decisamente di più di quanto richiederebbe l’acquisto di un videogioco “tradizionale”. Considerando anche che oltre il  64% dei player utilizza Fortnite per più di 6 ore a settimana, si potrebbe teorizzare che il business degli acquisti in-app si basi tutto sullo status auto-percepito dai giocatori stessi, un modo per comunicare agli altri quanto si è affezionati e appassionati al gioco. Nulla di così diverso da quanto avviene nella vita reale col vestiario, a ben vedere.

Eventi ed engagement: l’importanza della temporaneità

Non ho parlato di “status” a caso: quando si parla di Fortnite – ma lo stesso potrebbe valere per molti altri giochi che adottano sistemi di business simili – non si può, infatti, ignorare il funzionamento della sua community che, probabilmente, è una di quelle videoludiche con il maggior engagement degli utenti. Tramite i vari eventi e tornei, che si tengono periodicamente, Fortnite è riuscito a creare un humus di storie che si avvicina a essere una realtà alternativa, nonché un luogo di incontro virtuale per milioni di utenti (in gioco è possibile parlare tramite chat vocale). Gli eventi possono svilupparsi in diverse tipologie e tenersi in concomitanza di festività (halloween, natale, ecc…) oppure in prossimità della conclusione di ogni “Stagione”, periodi solitamente di 10 settimane caratterizzati da particolari feature disponibili temporaneamente, da un po’ di narrazione che giustifichi cambiamenti e scelte degli sviluppatori, e, soprattutto, dal proprio “Pass Battaglia”. Quest’ultimo è la modalità d’acquisto in gioco più economica e consente, al costo di 950 V-Bucks (circa 10 euro), di accedere a un ampio set di oggetti virtuali, da riscattare completando missioni entro la fine della stagione.

Esclusi gli eventi di fine stagione, decisamente più interessanti sono quelli disponibili per festeggiare determinate ricorrenze o celebrare la community. In questi casi, per lo più, si tratta di modalità di gioco alternative o di missioni speciali disponibili temporaneamente che, spesso, consento di sbloccare, gratuitamente, bonus estetici che certificano, agli occhi degli altri giocatori, la presenza di chi li riscatta a quel determinato evento. Decisamente più particolari sono, invece, i concerti. Da qualche mese, infatti, si tengono su Fortnite, in un’apposita modalità dove non è possibile danneggiare gli altri giocatori, dei veri e propri live, in cui sono stati ospitati alcuni dei più importanti artisti della musica internazionale: iconico fu il concerto di Travis Scott di questo aprile, durante il quale presentò un suo nuovo brano in anteprima e fece, suo malgrado, crashare i server di Twitch per i troppi spettatori connessi a seguire l’evento in streaming.  La temporaneità  è, quindi, un elemento chiave del successo di Fortnite e del così alto numero di acquisti in-app. Essa, infatti, non si applica solo agli eventi e alle stagioni ma anche a ogni oggetto messo in vendita nello store del gioco, contribuendo ad accrescere le vendite per due motivi. Innanzitutto, gli acquisti vengono freneticamente spinti dal timore di non poter più trovare disponibile per l’acquisto un dato oggetto o skin per mesi e mesi, incentivando l’acquisto istantaneo e non troppo ragionato. In secondo luogo, come abbiamo detto, Fortnite non è più, ormai, solo un gioco ma una community viva e dinamica e possedere elementi estetici, magari non più acquistabili da mesi o anni, aumenta il proprio prestigio in una logica di anzianità ed esperienza.

Il successo delle collaborazioni: il caso Disney

Considerando tutto il pubblico che abbiamo visto essere attivo su Fortnite, non stupisce che il gioco sia diventato anche veicolo di pubblicità. Non si parla, però, di mero advertising ma di una dinamica più particolare e integrata oltreché, in un certo senso, subdola che potremmo definire come “in-game marketing”. Epic Games ha, infatti, creato un sistema di collaborazioni grazie al quale consente ad altri brand di poter creare  delle proprie skin o oggetti targati da vendere in Fortnite. Come è facile immaginare, queste collaborazioni hanno dei costi enormi per le aziende (non sono pubblici) ma hanno consentito a compagnie come Warner Bros., Nike, NFL e Netflix di avere migliaia di giocatori, fieri dei loro acquisti, tramutati in “uomini-panino” giocanti per la mappa di Fortnite. Una forma di pubblicità ad alta interattività che difficilmente può trovare pari in altri media.

Il caso di collaborazione più eclatante è stato quello con Disney che, in più occasioni, ha portato diversi suoi franchise – Marvel e Star Wars sopra tutti – nel gioco e non solo come elementi acquistabili. La stagione che si è conclusa appena qualche settimana fa è stata, infatti, monopolizzata dagli eroi Marvel : intere zone della mappa sono state dedicate all’universo fumettistico, così come tutte le ricompense sbloccabili nel già citato Pass Battaglia. Come se non bastasse, durante quel periodo di tempo, qualsiasi acquisto effettuato su Fortnite dava accesso a due mesi gratis di Disney+, la piattaforma di streaming del colosso californiano. Il risultato? Non ci è dato sapere quanto le abbia giovato di preciso, tuttavia la risposta entusiastica di Disney pare essere esplicativa da sé: la compagnia ha dichiarato di voler continuare a collaborare con Epic Games e, attualmente, sta pubblicizzando nel gioco la nuova stagione di “The Mandalorian”.

eSport e tornei

Come ogni videogioco competitivo che si rispetti, anche Fortnite ha sviluppato, negli anni, una sua fitta rete di tornei e di giocatori professionisti che si guadagnano da vivere giocando e streammando le loro partite in live su Twitch o altre piattaforme. Basta pensare che il totale delle ore guardate in streaming supera il miliardo per capire come Fortnite possa essere un business non solo per Epic Games, e per i brand che ci collaborano, ma anche per i giocatori più capaci.  A tal proposito, Forbes ha stilato una classifica dei 10 streamer più pagati, tra sponsor e sistemi di earning delle stesse piattaforme, del 2020: l’ultimo posto è occupato da Nickmercs che incassa “solamente” 6 milioni di dollari all’anno, mentre in testa troviamo il celebre Ninja coi suoi  17 milioni annui. Cifre che, logicamente, non tengono conto di eventuali vincite a tornei o ad altri eventi. Alla luce di ciò, è facile capire come Fortnite – e altri eSport – stia diventando non solo un passatempo ma anche l’oggetto delle ambizioni professionali di molti utenti. E questa tendenza viene incentivata da Epic Games che, utilizzando la stessa metodica degli eventi, organizza periodicamente tornei online ad accesso libero in cui è possibile vincere premi nell’ordine dei milioni di dollari.

Tutto ciò durerà?

In definitiva, Fortnite è un fenomeno che basa gran parte del suo successo su strategie di marketing non complesse né intricate. Tuttavia, queste sono riuscite a dare valore persino ad elementi che, di per sé, non aggiungono nulla alla ludicità del gioco. Epic Games ha, così, costruito un impero cross-mediale partendo dalla creazione di una community solida e attenta al proprio status nel gioco e, a oggi, afferma di avere contenuti per almeno una decina di anni. Resta da chiedersi quanto tutto ciò possa durare, è possibile che Fortnite possa sopravvivere a lungo senza mai innovarsi troppo?  Ciò che è sicuro è che in questi 3 anni il gioco non ha dato segni di rallentamento e che la fiducia degli sponsor dei tornei e dei brand collaboratori pare essere ancora altissima.

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Revenge porn: ecco perché la vendetta non c’entra

La Bibbia, Phica.net, chat Telegram dai titoli inquietanti: sto parlando del mondo proibito dell’ossessiva ed illecita sessualizzazione del corpo femminile. Mi addentro nello straziante labirinto di cartelle, link ed album, tutti accuratamente suddivisi ed organizzati al fine di una semplice e comoda fruizione. A, B, C, D, leggo tutte le cartelle finché non trovo quella con la mia iniziale. Scorro una, due, tre, cento pagine finché non trovo il mio nome. Eccolo: imponente, inquisitorio, scritto in un font tutto in maiuscolo che mi richiama all’attenzione. Doppio click e apro il file. Sul mio schermo compaiono centinaia di foto, video, immagini di volti femminili, foto innocue, momenti intimi, persone violate, anime tradite e disumanizzate. La mia faccia, comunque, non c’era: non io, non oggi. E se non io, chi allora? Ma soprattutto: perché?

Nelle ultime settimane si è scatenato un fenomeno mediatico rivoluzionario che ha travolto gran parte del web ed ha finalmente dato voce e visibilità a tutte quelle dinamiche discriminatorie a cui le donne sono sistematicamente soggette da secoli e che, per troppo tempo, sono rimaste nell’ombra.

Da Chiara Ferragni a Claudio Marchisio, centinaia di influencer, attivisti e persone comuni si sono esposte su giornali e piattaforme social invocando una presa di coscienza collettiva in campo di discriminazione di genere e dignità della donna affinché, prima tra tutte, la feroce e vile pratica del revenge porn possa giungere ad un epilogo.

Le parole dell’imprenditrice digitale Chiara Ferragni, che su Instagram conta attualmente 22 milioni di followers, colgono perfettamente l’urgenza e la necessità di un cambiamento radicale in merito all’impostazione patriarcale alla base della nostra società. “Usando il potente megafono di Instagram”, come lo definisce anche l’HuffingtonPost, l’imprenditrice ha agito da importante cassa di risonanza rendendo fruibili concetti e terminologie finora obsoleti, richiamando gli uomini e le donne alle loro responsabilità ed esprimendo in modo conciso l’estremo bisogno di una differente narrazione dei fatti di cronaca che coinvolgono violenza di genere e revenge porn.

Il “revenge porn” è un’espressione mediatica utilizzata per descrivere la pratica della diffusione di immagini e video intimi senza il consenso delle persone coinvolte. Letteralmente significa “vendetta pornografica” ma di fatto le cause e gli effetti di questo complesso meccanismo si spingono ben oltre la semplice voglia di vendicarsi, per esempio del proprio partner, attraverso la divulgazione di sue foto intime o private.

I motivi socioculturali che portano una persona a violare l’intimità di un’altra senza il suo consenso, esponendola così alla gogna mediatica e condannandola a danni irreversibili, sono molto più profondi di quanto si possa pensare. Il revenge porn, come apprenderemo, non si limita alla vendetta personale ma affonda le basi della sua stessa esistenza su concetti quali la cultura dello stupro ed il victim-blaming, di cui facciamo troppo spesso esperienza attraverso le narrazioni giornalistiche.

Lo scorso aprile questo feroce fenomeno, attraverso la denuncia delle chat Telegram, ha sicuramente mostrato uno dei suoi volti più tragici e oscuri.

Il caso Telegram: la punta dell’iceberg

Durante il periodo di lockdown dovuto alla pandemia causata dal Coronavirus, i casi di revenge porn sono drasticamente aumentati, o meglio, ne è esponenzialmente aumentata la denuncia pubblica. Come riferisce anche l’editoriale Domani, secondo un recente rapporto è emerso che in Italia il revenge porn riguarda 6 milioni di persone. Il motivo di questa sovraesposizione inaspettata è dovuto al fatto che nei primi giorni dello scorso aprile è letteralmente esploso il caso mediatico dei “gruppi Telegram“: chat in cui si praticava la divulgazione di materiale pedopornografico, intimo o privato, ma non solo. Telegram infatti è un’applicazione di messaggistica istantanea che, tra le varie funzioni, possiede anche quella di poter creare dei gruppi che possono contare fino a decine di migliaia di partecipanti. In alcuni di questi gruppi, utenti con falsi nickname non tracciabili barattavano immagini e video intimi girati o reperiti senza il consenso dei coinvolti in cambio di particolari “tributi”. Gli utenti si scambiavano fotografie di bambine, ragazze, donne come fossero figurine dei Calciatori Panini. In altri casi, si divertivano ad estorcere ingenue foto di figli e figlie, mettendo le immagini alla mercé del branco di uomini affamati che popolava la chat. Si possono intuire ovviamente i profondi danni psicologici, fisici, occupazionali e relazionali causati alle vittime di questo accanimento insensato, per non parlare dei casi di suicidio. Le migliaia di utenti, per la quasi totalità uomini, che partecipavano a questi gruppi distruggevano violentemente una ad una le loro vittime, attraverso pratiche mortificanti, umilianti e disumane. Le prede preferite del branco erano (e rimangono) prevalentemente persone di sesso femminile, ostaggio di sconosciuti indipendentemente dalla loro età o dalla tipologia del materiale fotografico in cui si trovavano coinvolte. Le modalità di diffusione di questi contenuti all’interno delle chat, inoltre, si sono rivelate così violente e maniacali che, in pochi giorni, le pagine social sono state letteralmente invase da notizie ed informazioni che hanno contribuito a denunciare a gran voce ciò che effettivamente stava accadendo su altre piattaforme: uno stupro di gruppo virtuale.

Una volta compresa la gravità della situazione, però, gli interrogativi sono ancora molti: perché le vittime sono principalmente donne? Che ruolo hanno umiliazione, colpa e vergogna? Perché sul corpo della donna grava ancora la dicotomia sacralità/usurpazione?  Cosa c’è di sbagliato nel farsi una foto intima? Ma soprattutto, perché c’è ancora così tanta differenza tra la trattazione dell’erotismo maschile e quello femminile?

Lo scandalo dei gruppi Telegram non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema malato e di una cultura più complessa di quanto pensiamo. La società contemporanea, frutto di un’impostazione patriarcale, è dilaniata da etichette e pregiudizi che generano squilibri di potere, violenza di genere e discriminazioni.

Il tabù della sessualità femminile: tra desiderio e vergogna

Le motivazioni che portano all’affermarsi della pratica del revenge porn sono sicuramente molte e variegate ma tutte traggono le proprie origini da un bacino culturale in cui tabù e stereotipi sono all’ordine del giorno, in particolare modo nei confronti di una sessualità femminile giudicata “non conforme” ai canoni socialmente imposti.

Occorre comunque sottolineare che da questo truce e mortificante meccanismo non sono esenti gli uomini. Secondo i dati più recenti infatti, quasi per il 90% dei casi le vittime di revenge porn sono donne, mentre il restante 10% si tratta di uomini. Le modalità e le motivazioni tramite cui questo avviene però sono estremamente differenti nei due sessi.

Il revenge porn contro le donne si basa infatti su un’intrinseca mortificazione e repressione del desiderio erotico femminile, il quale è percepito come qualcosa di sbagliato e scandaloso. Le donne sono quindi soggette all’umiliazione e alla vergogna pubblica a causa di un rapporto con l’intimità che non ha niente di colpevolizzante o vergognoso se non il fatto stesso di esistere. I motivi per cui invece gli uomini diventano vittime di revenge porn sono ben diversi: questi infatti sono soggetti a ricatto, disprezzo ed umiliazione a causa della fragilità della propria sessualità rispetto allo stereotipo dell’uomo-macho (frutto del patriarcato) e non per il desiderio erotico in sé, che invece è considerato giusto e naturale per l’uomo.

Questa analisi si traduce nel diverso modo in cui tutt’oggi giudichiamo la foto di una ragazza nuda rispetto a quella di un ragazzo nudo: la prima fa scandalo, la seconda generalmente un po’ meno.

Il revenge porn è quindi in primo luogo un fenomeno legato ad un problema di tipo culturale – più che vendicativo – che nel 90% dei casi avviene ai danni di una donna. Alla base di questa incidenza così elevata c’è senza dubbio un rapporto malsano con la concezione della sessualità femminile.

Fin dall’antichità classica infatti, il desiderio femminile era conosciuto e temuto ben prima che si affermasse l’idea cristiana del peccato. La religione ha poi contribuito a diffondere l’immagine della donna peccaminosa e immorale che attenta alla virtù maschile e deve essere governata per reprimere il proprio desiderio. Agli albori del ‘900, è proprio Freud, il padre della psicoanalisi, a condannare il piacere femminile con teorie secondo cui la sessualità femminile si sviluppa attorno alla frustrazione generata dall’assenza del pene.

Tutt’oggi la ricerca in questo campo è rallentata dagli innumerevoli tabù che ancora avvolgono il piacere “dell’altro sesso”, come afferma la giornalista scientifica Paola Emilia Cicerone sulla rivista scientifica Mind.

La sessualizzazione e la vergogna associate al proprio corpo hanno costretto le donne a dover limitare le proprie pulsioni e i propri desideri. Questi presupposti rendono delle foto intime passibili di ricatto ed umiliazione solo perché la persona che vi è ritratta è una donna. Il corpo femminile viene costantemente sessualizzato: una spalla più scoperta diventa volgare, una posizione inusuale diventa provocante, la pelle nuda diventa inadeguata, lo sguardo ammiccante, il seno inopportuno.

Il corpo della donna è un luogo sacro da proteggere e preservare e allo stesso tempo merce di scambio, oggetto a completa disposizione dell’uomo.

In questo modo, da secoli, le donne sono costrette a portarsi dietro ogni giorno un fardello culturale pesantissimo: lo stigma della loro stessa carne.

La cultura dello stupro

Per comprendere a fondo le radici socioculturali del meccanismo perverso ed umiliante alla base del revenge porn, occorre chiarire il significato di “stupro” e della cultura ad esso associata su cui anche la nostra società ha costruito i propri equilibri di potere.

Quella di “cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata nell’ambito degli studi di genere per descrivere una cultura nella quale stupro e violenze sessuali sono ritenute socialmente accettabili. Questo processo di progressiva normalizzazione avviene contemporaneamente su più binari. Una posizione rilevante in questo processo è sicuramente assunta dalla comunicazione mediatica che, fin troppo spesso, banalizza e giustifica tali comportamenti contribuendo a rendere la discriminazione di genere prassi quotidiana.

La normalizzazione della violenza di genere avviene concretamente attraverso 3 pratiche di cui facciamo esperienza quotidiana: lo slut-shaming, il victim-blaming e l’oggettificazione del corpo femminile.

Lo slut-shaming (dll’inglese “slut”, puttana, e “shame”, vergogna) è la tendenza a screditare una donna per determinati comportamenti o desideri sessuali considerati non consoni alla norma prevista. Con l’espressione victim-blaming (colpevolizzazione della vittima) si intende il processo psicologico attraverso cui la vittima di una violenza viene considerata responsabile della stessa. Attraverso questo meccanismo, la causa determinante del reato viene spostata dall’uomo aggressore alla vittima. Secondo un’analisi dell’Istat, una persona su 4 in Italia ritiene che un abbigliamento “succinto” possa essere la causa di una violenza sessuale.

L’oggettificazione del corpo femminile è invece l’elemento che fa da trait d’union tra le pratiche sopra citate in quanto consiste nella predisposizione a considerare la donna come mero oggetto atto alla gratificazione sessuale di un uomo. Il corpo femminile può essere umiliato o sfoggiato come un trofeo, a seconda delle circostanze, ma pur sempre al fine di supportare e incrementare la virilità maschile.

Ed è con questa nonchalance, causata dalla secolare interiorizzazione della cultura dello stupro, che la compagnia petrolifera X-Site Energy è giunta, lo scorso marzo, a diffondere degli adesivi in cui si incita lo stupro di Greta Thunberg, attivista ambientalista. La ragazza, appena diciassettenne, è raffigurata mentre viene chiaramente violentata da un uomo che stringe fra le mani le sue trecce. Questa è una delle tante dimostrazioni del fatto che il corpo delle donne continua ad essere considerato una proprietà di dominio maschile e lo stupro la rappresentazione più primitiva dell’oppressione dell’uomo sulla donna, condannata ad un perenne clima del terrore.

Il revenge porn nasce proprio da questi presupposti: l’oggettificazione e la sessualizzazione del proprio corpo costringono le donne non solo a subire continue limitazioni ma le obbligano anche a convivere con la costante paura di poter essere sottomesse o umiliate, in qualsiasi momento e con ogni possibile mezzo a disposizione, che si tratti di violenza fisica o foto intime divulgate senza consenso.

Narrazione e linguaggio come specchio del grado di civiltà di un popolo

La narrazione dei fatti legati alla violenza di genere assorbe completamente gli effetti della cultura dello stupro, tanto che meccanismi quali la colpevolizzazione della vittima o lo slut-shaming finiscono con l’essere elemento fondante della trattazione delle informazioni trasmesse dai mass media.

Dal revenge porn ai femminicidi, i mezzi di comunicazione sfruttano un doppio binario: se da un lato puntano alla colpevolizzazione della vittima (victim-blaming), dall’altro contribuiscono alla vittimizzazione del carnefice, veicolando così una narrazione giustificazionista e distorta che però viene percepita come normale.

Il comportamento maschile viene sempre descritto come conseguenza di quello femminile, con l’effetto di spostare la responsabilità dal carnefice alla vittima.

In questo modo si scrive che “lui l’ha uccisa perché voleva lasciarlo” oppure “lui ha inoltrato le sue foto intime senza il suo consenso ma è lei che ha deciso di scattarsele”.

Il meccanismo utilizzato è il medesimo: far ricadere sulla vittima un senso di colpa e vergogna causato dalle conseguenze delle proprie libere e legittime scelte.

A rendere il quadro più surreale e distorto è la romanticizzazione che generalmente accompagna la descrizione dell’episodio. I giornali spesso assumono un atteggiamento giustificatorio nei confronti di chi ha commesso il reato, fornendo dettagli inutili e spostando il focus dalla vittima al retroscena di concause che hanno portato il colpevole a commettere il crimine, deresponsabilizzandolo. In questo modo, il lettore è logicamente portato ad empatizzare per il carnefice. Questo, come spiega la scrittrice e intellettuale sarda Michela Murgia nel suo libro “<<l’ho uccisa perché l’amavo>> Falso!”, si tratta di un terribile paradosso: sattamente come quando si descrive un furto si dà per scontato che il ladro stia nell’errore, così nei casi di violenza di genere si dovrebbe condannare il carnefice, non tentare di giustificarlo.

Un caso emblematico di narrazione basata sulla rape culture è l’articolo del giornale Libero scritto da Vittorio Feltri (poi rimosso dal web) dal titolo “I cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese“ con cui Feltri commenta il caso dell’imprenditore fondatore di Facile.it che ha stuprato e torturato per ore una 18enne. Feltri, come se stesse sistematicamente seguendo un copione, procede nel racconto della vicenda colpevolizzando la vittima dell’accaduto e deresponsabilizzando Genovese dal turpe atto compiuto.

Queste tecniche disorientanti sono utilizzate quotidianamente da molte testate giornalistiche, sebbene ciò avvenga secondo modalità e misure diverse, e le narrazioni fornite minimizzano o banalizzano le violenze fisiche e “virtuali” subite dalle donne contribuendo così ad alimentare la normalizzazione di questi eventi.

Il linguaggio, soprattutto in questi casi, diventa sostanziale. Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio del grado di civiltà di una popolazione. I termini utilizzati in diversi contesti infatti sono la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Per questi, il linguaggio risulta essere una variabile da tenere in considerazione quando si parla di violenza di genere e di corretta narrazione degli eventi ad essa associati in quanto costituisce proprio il primo strumento tramite cui fornire una chiave di lettura della realtà.

Il giornalismo è un mezzo essenziale che ha il potere di educare e proporre nuove coscienze collettive. A volte, però, sembra non voler sfruttare queste potenzialità.

È necessario quindi che i mezzi di comunicazione prendano consapevolezza delle parole che utilizzano e della visione distorta che molto spesso forniscono al lettore. L’azione stessa di dar voce al carnefice, assumendo il suo punto di vista, è sbagliata proprio perché trasmette l’idea che vittima e colpevole siano su uno stesso piano quando, per evidenza dei fatti, non lo sono.

È solo attraverso una narrazione chiara e corretta, priva di quel filtro cognitivo generato dall’ambiente socio-culturale in cui ogni individuo è cresciuto, che si può contribuire ad un effettivo cambiamento: la lotta comincia dalle parole.

Stato, coscienza comune ed educazione: da dove ripartire

Sesso, corpi e desideri non dovrebbero essere fonte di giudizi, tabù o moralismi: solo così forse potremmo gradualmente spogliarci delle pesanti catene della vergogna e sentirci, poco a poco, un po’ più liberi ed un po’ più accettati.
Negli ultimi anni in vari paesi si è cercato di far fronte alla pratica del revenge porn, sebbene secondo gli esperti il diritto non riesca ancora a far fronte alle nuove tecnologie. In Italia, il reato per la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone coinvolte è previsto dall’articolo 612-ter del codice penale, introdotto con la legge n 69/2019. Esso prevede una pena fino a 6 anni di carcere ed una multa da 5mila a 15mila euro. Le stesse misure inoltre possono essere applicate anche a chi contribuisce a diffondere questo materiale inviandolo ad altre persone.
Anche l’Italia quindi si sta muovendo verso una maggiore tutela delle possibili vittime di questo atroce meccanismo. Ma possono delle leggi essere sufficienti ad eliminare questa piaga sociale e culturale una volta per tutte? Probabilmente no.

Come abbiamo analizzato, quello del revenge porn è un problema di matrice culturale profondamente radicato nella nostra società e nel nostro animo. Un’educazione sessuale e digitale ben programmata potrebbero sicuramente essere un valido strumento per cambiare le cose alla loro origine, fornendo una visione diversa ma più consapevole e non tossica della sessualità e del rispetto dell’intimità altrui. Ora più che mai, risulta necessario non essere indifferenti di fronte alla realtà e alle ingiustizie che ci circondano. Occorre reagire, in modo critico e competente, alla violenza e alla disumanità armati in primo luogo di conoscenza e rispetto.

Per far sì che avvenga un effettivo cambiamento c’è bisogno di tempo: i motivi alla base del revenge porn sono infatti secolarmente radicati nella cultura Occidentale. A questo scopo è fondamentale il contributo di ogni individuo. Ognuno di noi infatti deve impegnarsi a  sensibilizzare le persone che gli stanno intorno, intervenendo nel modo più opportuno qualora si verificasse una qualsiasi forma di violenza fisica o virtuale.

È necessario cambiare la narrazione dei giornali, insegnare il significato di “consenso” ed affiancare la crescita dei giovani ad una corretta e sana educazione sessuale, meno reticente e più inclusiva e consapevole dei rischi della rete online ed offline.

Per quanto riguarda nello specifico i casi di revenge porn, è estremamente importante “rompere la catena”: quando ci si imbatte in un contenuto intimo appartenente ad un’altra persona è dovere di ogni cittadino impedirne l’ulteriore la diffusione, nel rispetto della privacy (diritto umano previsto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e della dignità di chi vi è ritratto. È necessario non inoltrare immagini o video privati ed è buona norma esporsi affinché questo non venga fatto da altri utenti, ricordando opportunamente che divulgare materiale intimo senza consenso è illegale e passibile di denuncia.

Al giorno d’oggi, è sempre più urgente e necessario istruire gli individui ad un piacere genuino e disinteressato, libero da pregiudizi e giochi di potere, e soprattutto consapevole dei mezzi e dei rischi della rete, pronto a ricongiungersi con un’intimità priva di vergogna.

< Torna indietro
Marketing & Social Media

Il Natale dal punto di vista di Coca-Cola

Lo scorso 6 Dicembre, in piazza Duomo a Milano, è stato allestito l’attesissimo albero di Natale, quest’anno sponsorizzato e illuminato da uno dei marchi più apprezzati e influenti al mondo: Coca-Cola.

L’azienda ha sfruttato l’occasione per farsi carico di un’importante causa che ha come obiettivo primario il supporto dei più bisognosi, e nello specifico il sostegno alla Rete Banco Alimentare.

Un’ulteriore iniziativa natalizia di Coca-Cola ha avuto come protagonista il suo iconico camion rosso, che nelle ultime settimane è stato avvistato in giro per l’Italia in occasione del “Truck Tour”.

L’evento ha suscitato molta curiosità da parte degli italiani che uscendo di casa hanno sperato di incrociarlo per le strade della propria città.

Queste sono state soltanto alcune delle attività di marketing che l’azienda ha intrapreso in occasione di questo Natale molto particolare.

Infatti, come accade ogni anno da ormai qualche decennio, Coca Cola ha diffuso online il suo personale video marketing a tema natalizio: la nuova campagna intitolata “A Natale, regala qualcosa che solo tu puoi donare”.

Si tratta di un breve video focalizzato sul valore della famiglia, realizzato con scene semplici ma ricche di significato che ha commosso ed emozionato molti spettatori.

Fonte: https://medium.com/@Stewart_Fabrik/holidays-are-coming-the-coca-cola-christmas-branding-story-8f08e2be8def

Come Coca-Cola ha interpretato il Natale

L’azienda ha da sempre avuto idee spettacolari per la realizzazione dei suoi spot, specialmente per quelli natalizi, che secondo molti avrebbero contribuito a definire una visione del Natale così come lo conosciamo oggi.

Infatti, è convinzione comune il fatto che Babbo Natale, rappresentato con la tipica immagine alla quale siamo abituati e soprattutto con indosso l’abito rosso, sia frutto della creazione della stessa Coca-Cola. Questa opinione è stata però smentita dall’azienda, la quale ha affermato che l’idea del vestito rosso di Santa Claus non sia nata da loro ma sia stata presa dal fumettista Thomas Nast: https://www.coca-colaitalia.it/il-nostro-mondo/pubblicita/babbo-natale-vestito-rosso .

È comunque innegabile il fatto che il trascorrere del tempo e gli spot natalizi di Coca-Cola che si sono susseguiti negli anni abbiano notevolmente influenzato l’immagine del personaggio di Babbo Natale, e la coincidenza tra i suoi colori e quelli del brand rappresenta un ulteriore aspetto positivo per l’azienda.

Fonte: https://medium.com/@Stewart_Fabrik/holidays-are-coming-the-coca-cola-christmas-branding-story-8f08e2be8def

Fonte:
https://www.coca-cola.co.uk/our-business/history/holidays-are-coming-the-history-of-coca-cola-and-christmas

Gli spot natalizi più iconici e commoventi

L’unione delle voci di tutto il mondo degli anni ‘80

Uno tra i primi spot realizzati da Coca-Cola, che ancora oggi viene piacevolmente ricordato, ha per protagonisti ragazzi di diverse etnie, che unendo le proprie voci in un canto natalizio rappresentano l’affetto che unisce le persone che condividono lo spirito del Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=_zCsFvVg0UY

I Christmas Trucks dal 1995 ad oggi

I camion rossi natalizi di Coca-Cola sono stati ideati, creati e utilizzati negli spot del brand ormai più di venti anni fa, ma sono stati protagonisti di altre campagne fino a diventare elementi importanti per l’azienda anche al giorno d’oggi, come si è visto per l’evento “Truck Tour” di queste settimane.

Consistono in un fondamentale simbolo di Coca-Cola e vengono facilmente riconosciuti in tutto il globo.

https://www.youtube.com/watch?v=E3Wvb0dapZA&list=RDE3Wvb0dapZA&start_radio=1

Gli orsi polari degli anni ’90

Nella campagna “Northern Lights” del 1993 appaiono per la prima volta i protagonisti di moltissimi spot che verranno realizzati in futuro da Coca-Cola: gli orsi polari.

A partire da questa pubblicità vennero in seguito riutilizzati per diverse campagne, soprattutto quelle natalizie, nelle quali gli animali, rappresentati come una classica famiglia, bevono naturalmente la bibita e trascorrono insieme il Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=NgZ6X0zo8is

Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=K9rb7ZfNmr8

Coca-Cola, la bibita che ha accompagnato per generazioni 2006

Spot che come tema centrale presenta la fiducia del marchio che ha accompagnato intere generazioni per molto tempo.

Il tutto avente per protagonista l’immancabile personaggio di Babbo Natale.

https://www.youtube.com/watch?v=OG5SOUCyuCM

“A Natale, regala qualcosa che solo tu puoi donare” 2020

Per concludere un anno così complicato Coca-Cola è riuscita a trasmettere un bellissimo messaggio focalizzato sull’importanza dell’affetto per la famiglia, valore alla base del Natale.

Coca-Cola punta molto sul lato emotivo con storie semplici che arrivano sempre al cuore del pubblico; inutile dire che riesce sempre a commuovere tutti!

https://www.youtube.com/watch?v=yg4Mq5EAEzw

Gli spot realizzati da Coca-Cola in occasione del Natale sono diversi tra loro, ma si accomunano per il fatto che trattano sempre temi importanti, differenti a seconda del contesto in cui viene realizzata la campagna.

Ogni spot riesce a scaldare il cuore di chi li guarda.

Punto a favore per un’azienda che è già molto forte e che con le storie natalizie che ha creato negli anni è riuscita a conquistarsi sempre di più la fiducia dei suoi consumatori.

Coca-Cola ha sempre ideato soluzioni originali per sorprenderci, cosa potrà mai creare per stupirci ancora?

< Torna indietro
Economia, StartUp e Fintech

Pagopa, app io e operazione cashback: la digitalizzazione della pubblica amministrazione

Da quasi un anno a questa parte il Covid-19 ha messo in seria difficoltà i motori dello stato italiano, portando alla luce i complessi e vetusti meccanismi che sono alla base del nostro sistema sociale, sanitario ed economico. In primo luogo la lentezza e complessità della macchina burocratica ha reso ancora più ardua la gestione della pandemia e la guida di un paese con cui è difficile comunicare a causa della scarsa digitalizzazione.

Il nostro paese è da anni caratterizzato da una inclinazione negativa al cambiamento digitale, considerato un elemento “estraneo” e difficilmente inseribile nel sistema produttivo e organizzativo statale. Da qualche anno a questa parte il Governo sta mettendo in atto manovre e riforme per permettere ai sistemi digitali di affiancarsi a quelli già presenti nelle macchine statali.

Nel 2019 abbiamo assistito alla nascita di pagoPA, società nata in seguito al Decreto Legge “Semplificazioni”. La piattaforma PagoPA ha aperto la strada alla fruizione dei servizi statali online, portando così ad una prima semplificazione e digitalizzazione dei sistemi della pubblica amministrazione.

Nel mese di aprile 2020 è stata poi creata dalla Agenzia delle Entrate l’App “IO” che propone diversi servizi online sulla scia della piattaforma “pagoPA” a cui questa è integrata. Entrambe le piattaforme rappresentano una finestra di comunicazione semplice e agevole tra il mondo della pubblica amministrazione e i cittadini che si registrano. Con l’applicazione “pagoPA” gli iscritti hanno modo di effettuare una serie di pagamenti tra cui multe, bolli e tributi che si possono concludere in modo sicuro e veloce tramite la nuova app “IO”.

Oltre agli avvisi di pagamento, l’App IO mette a disposizione tantissime prestazioni:

  • consente di ricevere messaggi da un ente;
  • essere costantemente al corrente di tutte le scadenze che sono ancora da effettuare;
  • conservare in modo digitale i propri dati personali.

Dal primo luglio al 31 dicembre 2020 è ad esempio possibile richiedere tramite l’app il Bonus Vacanze messo a disposizione dal Governo a seguito del “Decreto Rilancio”.

L’operazione Cashback rappresenta l’ultima e più innovativa novità dell’app “IO” resa accessibile dall’8 dicembre 2020. L’idea alla base dell’iniziativa è quella di incentivare i cittadini ad effettuare pagamenti cashless attraverso la restituzione di una percentuale di denaro speso. Il Governo propone così una strada alternativa per contrastare l’evasione fiscale nel nostro paese attraverso strumenti digitali e il coinvolgimento diretto e attivo degli iscritti: costoro vengono infatti “premiati” mediante la restituzione di una somma di denaro, se scelgono di pagare le loro spese con carte o applicazioni online al posto del denaro contante (ad esempio Satispay). Per usufruire di questo servizio gli acquisti devono essere effettuati in negozi fisici, non vengono considerate transazioni riguardanti le spese online. Una iniziativa certamente condivisibile e apprezzabile se mirata a salvaguardare l’identità di un negozio fisico, in un’epoca in cui l’e-commerce sta diventando lo strumento principale per fare acquisti a discapito delle PMI deI nostro paese.

Il Cashback è partito in due fasi

Il Cashback natalizio è in vigore dall’8 al 31 dicembre 2020 con lo scopo di incentivare le compere in vista delle festività natalizie. Per “sbloccare” il Cashback è necessario effettuare dieci transazioni. In questo modo ad ogni operazione, a partire dalla prima effettuata, sarà rimborsato un importo del 10% della spesa sostenuta fino a un massimo di 1500 euro e quindi una restituzione di massimo 150 euro.

Ci sarà poi una seconda fase del Cashback il 1gennaio 2021.

I rimborsi degli acquisti saranno semestrali per un massimo di 150 euro a semestre e un totale di 300 euro l’anno. È necessario che vengano effettuati almeno 50 pagamenti cashless a semestre. La restituzione avverrà alla scadenza del semestre tra i 30 e 60 giorni.

Per premiare i consumatori che effettuano il maggior numero di pagamenti cashless, è stato istituito anche un Super Cashback ovvero un cashback aggiuntivo sempre di durata semestrale a cui hanno diritto di partecipare i primi 100.000 registrati che hanno effettuato il maggior numero di transazioni nell’arco dei sei mesi.

Per il momento sono programmati 3 semestri in cui sarà possibile usufruire del servizio Cashback.

La piattaforma è in costante crescita ed evoluzione in un’ottica di ampliamento dei servizi al fine di rendere più snella la macchina burocratica del nostro paese.

L’app “IO” e il servizio Cashback ci mostrano un paese finalmente volenteroso nel voler perseguire una strada verso il mondo della digitalizzazione e della tecnologia in un’ottica di continua trasformazione ed evoluzione. Quale sarà ora il prossimo passo?

< Torna indietro
Ambiente, società e tecnologia

Robotaxi Zoox: oltre ai pacchi ora Amazon vuole portare a destinazione pure noi

“The future is for riders, not drivers” è lo slogan di Zoox, startup che si occupa della progettazione e produzione di veicoli elettrici a guida autonoma acquistata quest’anno da Amazon, che ha appena lanciato su strada una prima versione di robotaxi. L’innovazione promette di rivoluzionare il futuro del trasporto pubblico che sarà guidato dalle intelligenze artificiali in forma rigorosamente sostenibile.

Il veicolo

A prima vista si presenta così: ridotto, compatto, bidirezionale, dal design squadrato per massimizzare lo spazio, simile ad un minibus ma comodo come un taxi. Con due porte d’ingresso e quattro posti a sedere dotati di cinture di sicurezza, airbag e diversi comfort, nell’abitacolo è presente anche un porta bevande, una presa di corrente e un mini schermo per tracciare il percorso che si sta compiendo. L’innovativo veicolo, con un’autonomia di 16 ore, può raggiungere la velocità di 120 km/h e si prenota con un’app dalla quale si può anche “personalizzare” la propria corsa scegliendo l’ora e il luogo di partenza e arrivo oltre che la musica e il riscaldamento a proprio piacimento.

Aicha Evans, CEO di Zoox, in un’esclusiva intervista promette: il nuovo robotaxi sarà pulito e sicuro, ad un prezzo accessibile per tutti, con diverse modalità di abbonamento a seconda delle esigenze del singolo cliente e prima ancora di scendere, il taxi saprà già chi dovrà salire, così da essere sempre efficiente e viaggiare al massimo delle sue potenzialità, in modo da non girare a vuoto.

Ma è sicuro?

Progettato appositamente per il traffico cittadino e la mobilità urbana, il robotaxi è agile nel muoversi tra gli oggetti e i costruttori promettono di garantire la massima sicurezza: il veicolo possiede infatti telecamere, radar e lidar scanner ad ognuno dei 4 angoli così da permettergli una perfetta visuale a 360 gradi rivela Mark Rosekind, Chief Safety Innovation Officer.

Ashu Rege, Senior President Software, in uno dei video di presentazione pubblicato sul canale youtube dell’azienda, spiega come funziona il “cervello” del veicolo: “il software è un intelligenza artificiale programmata per elaborare le informazioni visuo-spaziali proprio come farebbe la mente umana, come gli esseri umani riesce a prevedere le mosse altrui ed è in costante apprendimento, a differenza di questi però, che possono fare affidamento solo sulla vista e nemmeno sempre bene, il robot possiede ai suoi 4 angoli una combinazione di tecnologie che gli permettono di vedere e ricostruire tutto ciò che ha attorno nel raggio di 150 metri“.

E in futuro? il servizio non sarà forse così immediato…

I piani per il futuro non sono ancora perfettamente definiti: per il momento Zoox vuole testare questo nuovo sistema per essere certi che sia sicuro e adeguato in ogni situazione, al massimo dell’efficienza per le strade di San Francisco, Las Vegas e Foster City. Quando lo si vedrà in servizio anche nelle altre città? Evans non si vuole sbilanciare molto, ma ammette: “non prima di un anno”. Ci vuole ancora tempo dunque, ma la rivoluzione dell’AI è qui e Bezos è pronto a finanziarla.
D’altronde il futuro è dei passeggeri, non dei guidatori.

Zoox L5 Fully Autonomous, All-electric Robotaxi Interior
Zoox Fully Autonomous, All-electric Robotaxi
Zoox L5 Fully Autonomous, All-electric Robotaxi at Coit Tower San Francsico
Zoox Fully Autonomous, All-electric Robotaxi
Zoox L5 Fully Autonomous, All-electric Robotaxi
< Torna indietro
Marketing & Social Media

E-commerce: consigli per un corretto funzionamento

Sul nostro magazine oggi vogliamo fornire dei consigli e gli strumenti di cui dotarsi per riuscire a far funzionare adeguatamente un e-commerce.

Questo modello di business, da quanto emerge dal report 2020 della Casaleggio Associati, ha prodotto nel 2019, a livello mondiale, un fatturato pari a 15.751 miliardi di dollari, mentre a livello italiano il valore è stimato intorno ai 48,5 miliardi di euro, con una crescita del 17% rispetto al 2018. La crescita, che interessa anche il numero di utenti che accedono ad internet (da desktop e soprattutto da mobile), ha subito un’accelerazione a causa della pandemia.

Mercato: analisi e posizionamento

In funzione di questo scenario, per riuscire a ritagliarsi spazio sul mercato è necessario essere (e rimanere) aggiornati rispetto alle tendenze del settore, il comportamento dei consumatori e all’analisi dei dati attraverso piattaforme come Think with Google o Algopix. L’analisi deve essere svolta anche sulla concorrenza all’interno del proprio settore, utilizzando strumenti che ne automatizzino la raccolta di informazioni, comprendendo i motivi per i quali determinati competitor risultino posizionati in maniera migliore.

In funzione di ciò, è importante avvalersi di strumenti dedicati per analizzare i parametri che determinano il posizionamento in sé, come SEO e SEA. Questo perché, come affermato da Mirella Bengio (CM di PayPlug): “i siti di e-commerce più importanti sono quelli che riescono a capitalizzare queste due leve”.

(Esempi: Wiser, SEMrush, AHrefs, UberSuggest, Answer the Public, Exploding Topics, SEO Zoom)

Brand Strategy

Il posizionamento di un e-commerce è determinato anche dalla brand strategy adottata. Tramite essa si deve dimostrare di poter fornire un valore aggiunto all’interno del proprio settore, distinguendosi in tal modo dalla concorrenza.

Fondamentale è la presenza attiva sulle piattaforme social, in maniera coerente utilizzando stesso logo e colori, per mostrare il marchio e pubblicizzarlo.

Importante, in questo senso, è riuscire ad integrare i social media (ad esempio Instagram) nel proprio store consentendo ai clienti di sfoggiare i prodotti acquistati direttamente sulla home page, incentivando così le vendite e le conversioni.

Utile risulta essere l’implementazione di strumenti per la gestione di tutte le proprie referenze online, in maniera tale da stimolare altri potenziali acquirenti a completare gli acquisti nel proprio e-commerce.

(Esempi: Authentipix, Freedaty)

Marketplace

Importante è anche la presenza sui marketplace, utilizzare pertanto dei servizi per rintracciare quelli più adatti alla nostra attività e che permettono di gestirli attraverso una sola piattaforma, in modo da averli tutti sotto controllo.

(Esempi: Lengow, Seller Dynamics)

Sito web

Focalizzandoci invece sul sito web, è importante che esso risulti ottimizzato al meglio, sia la versione desktop che mobile. È pertanto necessario svolgere dei test per verificarne il funzionamento. L’ottimizzazione però passa anche attraverso l’analisi del comportamento dei visitatori all’interno del sito. In questo modo è possibile individuare gli aspetti critici, come la perdita di interesse o l’abbandono della pagina stessa, e progettare le dovute strategie in merito.

(Esempi: Saucelabs, Google Analytics, Metrillo, Woopra, Hotjar, Crazy Egg)

Esperienza utente

È essenziale garantire la migliore esperienza di acquisto, versione desktop e soprattutto su mobile, in tutte le sue fasi, da quella di esplorazione passando per quella di valutazione arrivando fino all’ultima, quella di acquisto.

Le pagine devono caricarsi in tempi brevissimi, l’interfaccia deve possedere un design accattivante, sia per contenuto che per impatto visivo.

Utilizzare dei servizi che consentano ai clienti di confrontare e trovare i prodotti, in maniera semplice e pertinente.

Prodotti che, in generale, devono essere rappresentati e descritti in modo chiaro e dettagliato e, nel caso in cui risultino particolarmente importanti, valutare l’integrazione di video, formati 3D o addirittura realtà aumentata.

L’ultima fase dell’esperienza di acquisto, il pagamento, rappresenta un punto strategico in quanto, citando ancora Mirella Bengio: “può fidelizzare o, al contrario, far abbandonare la transazione”. In funzione di questo, utilizzare strumenti che lo rendano semplice e che siano in grado di offrire modalità di pagamento diversificati e la possibilità di aggiornarli con i metodi più innovativi, per rimanere sempre al passo con i tempi.

(Esempi: Sooqr, SearchSpring, Klana, Mollie).

Assistenza e comunicazione

L’assistenza è un aspetto da non sottovalutare. Un accorgimento utile ed efficace consiste nel disporre sulla propria homepage, in maniera evidente, il numero di servizio clienti, al fine di sottolineare la vicinanza ad essi per qualsiasi necessità.

Per ottimizzare il processo di assistenza, avvalersi di strumenti per raggruppare, su un’unica piattaforma, le interazioni dei clienti, dai propri siti web a tutti i marketplace e i canali social.

(Esempi: Xsellco eDesk, Zendesk)

Catena di distribuzione ed evasione degli ordini

Utilizzare strumenti che semplifichino il proprio back-end, la sincronizzazione degli ordini e che aiutino a generare e stampare facilmente codici a barre, automatizzando il processo di prelevamento, confezionamento e spedizione dei prodotti, tracciamento e ricezione delle spedizioni.

(Esempi: Inventory source, TradeGecko, Fishbowl Warehouse, Oderhive, Qapla’)

Sicurezza e privacy

In fatto di sicurezza e privacy è consigliato rivolgersi a professionisti del settore che valutino la vulnerabilità del proprio sito, scansionino il proprio network, svolgano simulazioni di attacchi di phishing a scopo formativo e che possano aiutare nella compilazione in materia di GDPR.

(Esempi: Swascan, Iubenda, OneTrust)

In funzione della crescita di questo modello di business, ci auguriamo che i consigli e gli esempi forniti possano risultare utili per superare le innumerevoli difficoltà di gestione e che possano potenziare la propria attività.