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Ambiente, società e tecnologia

Apprendere tramite la realtà virtuale: la nuova frontiera dell’istruzione

Indossare dei visori in aula per vedere comparire sul banco una cellula, una molecola o un pianeta, fare un esperimento di elettronica e maneggiare dei materiali pericolosi in totale sicurezza: queste sono solo alcune delle attività che si possono fare con la realtà virtuale per imparare meglio arrivando a “toccare con mano” e visualizzare oggetti normalmente impossibili. La missione di aziende come Google è portare tutto ciò quotidianamente nelle aule di scuole e università con l’obiettivo di rivoluzionare per sempre il mondo dell’apprendimento grazie a questa tecnologia.

Cosa sono realtà virtuale, realtà aumentata e le differenze

La realtà aumentata, augmented reality in inglese, è una tecnologia che permette di aggiungere le informazioni nel nostro campo visivo, andando ad arricchirlo di elementi nuovi grazie alla fotocamera dei dispositivi mobili sui quali sono stati installati appositi programmi. Il principio è quello dell’overlay ovvero la sovrapposizione di informazioni aggiuntive, definite ologrammi, a quelle già esistenti.

La realtà virtuale, virtual reality, riesce ad andare oltre: è una tecnologia immersiva che grazie ad un apposito visore, permette di immergersi in una realtà simulata alla perfezione, costruita in tre dimensioni e a 360 gradi che coinvolge non solo gli occhi ma anche l’udito e la propriocezione. Questi strumenti riescono a percepire i nostri movimenti, ricreando la scena come se fossimo nel mondo naturale: se si alza un braccio nel mondo esterno, si alzerà il corrispettivo ricreato nella simulazione, facendo credere al nostro cervello di trovarsi proprio lì; perché nonostante la consapevolezza di fondo di aver indosso un visore, la sensazione di embodiment crea un inganno per il cervello che si sente completamente presente.  A differenza della realtà aumentata, che si limita ad apparire in sovrapposizione, rimanendo ben distinguibile dal resto, la VR permette di immergersi totalmente nella scena rendendo difficile discernere ciò che è vero da ciò che è stato ricreato.

Esiste inoltre un terzo tipo, di realtà virtuale/aumentata, la cosiddetta mixed reality in cui AR e VR vengono unite: gli ologrammi già presenti nell’AR superano la staticità permettendo l’interazione come accade nella VR, rimanendo però nettamente distinguibili dalla realtà e perciò non è definibile immersiva.

AR/VR e ambiti di applicazione

Le realtà estese, citando una macro-categoria per racchiuderle tutte, hanno fatto il loro debutto nel mondo dell’entertaiment dando vita a videogiochi ultraimmersivi, ma negli ultimi anni è stato possibile vedere come possono essere applicate ad un’infinità di ambiti.

Alcuni sono più ovvi di altri, come quello industriale, dove diventerebbe possibile, semplicemente inquadrando un macchinario sconosciuto, visualizzare tutte le istruzioni  per il funzionamento sottoforma di animazioni dettagliate. Allo stesso modo può essere utilizzata per le training di addetti alla manutenzione di sistemi pericolosi come i tralicci dell’alta tensione dove sbagliare può costare la vita ed è anche molto facile per una persona alle prime armi; come sostiene Lorenzo Cappannari di AnotheReality: “se prima lo si insegna in modo altrettanto realistico ma totalmente sicuro in una simulazione, si può sbagliare tutte le volte che si vuole senza problemi e sbagliando, imparare”.

Grazie alle realtà estese è realmente possibile continuare a sbagliare senza nessuna conseguenza, caratteristica utile a professionisti come il pilota di velivoli, ma anche il chirurgo. Proprio a supporto di quest’ultimo, è il progetto della startup italiana Artiness che ha l’obiettivo di portare la realtà aumentata in sala operatoria per rendere gli interventi delicati più sicuri.

Realtà virtuale solo per settori “di rischio”?

L’industria e l’healthcare tuttavia non sono gli unici settori coinvolti, perché questo tipo di tecnologia ben si sposa con un ambito fondamentale: la formazione. In questi anni si sta fortemente sperimentando la VR per la formazione del personale delle aziende che invece di dover organizzare dei continui e dispendiosi corsi di formazione in presenza possono creare una simulazione ad hoc per il tipo di mansione che deve essere svolta, e presentarla ad ogni nuovo impiegato che, dotato di un visore, può imparare efficacemente la procedura, alla quale è stata aggiunta la componente di gamification.

Realtà estesa e apprendimento: ecco perché è così efficace

Il forte potenziale non si trova solo in ambiente lavorativo, ma anche in quello scolastico con bambini e ragazzi. La tecnologia evolve di giorno in giorno, ma nelle aule spesso rimane ancora la lavagna con il gesso quando invece sarebbero disponibili gli strumenti per rendere l’apprendimento non solo più interessante ma anche molto più efficace.

Per spiegare il perché dell’efficacia, è necessario fare riferimento alle neuroscienze: le ultime scoperte sul cervello spiegano che per apprendere meglio e quindi ricordare più a lungo comprendendo a livello profondo quello che si sta studiando, il modo migliore è fare. Il cono dell’apprendimento è un grafico che fa notare come dopo due settimane si ricorda solo il 10% di quanto si è letto, ma ben il 90% di quello che si è fatto rendendo l’apprendimento attivo.

In aggiunta, i mondi creati da AR e VR rendono l’esperienza di apprendimento coinvolgente e quindi emozionante, parola chiave in contesto di memoria in quanto, come dimostrano molteplici studi, più il materiale da imparare si lega alle emozioni e maggiore sarà il ricordo, perché concepito come rilevante per il cervello. Proprio per la loro capacità di generare e modificare emozioni anche permanentemente, sono considerate le prime tecnologie “trasformative”.

La nuova frontiera scolastica: i visori per tutti

Con le dovute premesse diventa evidente come la mixed reality possa essere rivoluzionaria per scuole e università. Già a partire dalle elementari, fino alla formazione superiore, le realtà estese possono aiutare gli insegnanti a spiegare concetti complessi e visualizzare oggetti fisici difficilmente comprensibili dalle immagini appiattite e poco realistiche dei libri; permettendo così di studiare in modo coinvolgente tutti gli argomenti: dalla biologia all’arte, dalla fisica alla chimica fino all’informatica e le lingue.  Si avrà dunque l’opportunità di capire a fondo teorie che sarebbero altrimenti estremamente nozionistiche, rendendole invece fortemente esperienziali.

Aziende come Google in partnership con Labster, ma anche Lenovo, hanno compreso a pieno la potenzialità e stanno lavorando a delle soluzioni per estendere quando più possibile l’utilizzo di queste tecnologie nella didattica di tutti i giorni. L’azienda californiana con il progetto “for education” ha trovato una possibile soluzione in continua evoluzione per portare la mixed reality nelle scuole, senza costi eccessivi: le Cardboard, delle custodie di materiale non fragile come cartone o plastica in cui inserire uno smartphone e utilizzarlo come prototipo di visore. La proposta è avvalorata dal fatto che esistono già delle applicazioni installabili sui devices che accompagnano gli studenti nella didattica interattiva. Nonostante Google stessa abbia ammesso che sia un progetto ancora parecchio acerbo, la prima scintilla è stata accesa e le potenzialità di sviluppo futuro sono molte, ciò che va ridimensionato è il sistema d’istruzione.

La strada potrebbe essere lunga

La scuola deve fare ancora molti progressi su questo fronte e gli ostacoli da superare per portare la trasformazione digitale in tutti gli istituti d’Italia non sono sicuramente pochi: a partire dai fondi per le tecnologie stesse e la formazione degli insegnanti, come sostiene Stefania Strignano, dirigente dell’Istituto Ungaretti di Melzo, una delle prime scuola statali italiane che ha rivoluzionato il metodo d’insegnamento tramite laboratori creativi, utilizzo di strumenti digitali e didattica personalizzata: “in primo luogo c’è da investire sul capitale umano ovvero i professori che per primi devono interiorizzare il cambiamento e saperlo portare agli alunni”.

Il lavoro da fare è parecchio ma il potenziale ancora di più e le ricerche scientifiche oltre che i risultati ottenuti da scuole pioniere, lo dimostrano. Vale la pena approfondire lasciandosi immergere nella trasformazione digitale.

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Economia, StartUp e Fintech

#iNspiration: il Capitano Daniel ai confini dei prodotti digitali

Oggi prende il via la nuova rubrica di iWrite: iNspiration.

Lo scopo di iNspiration è quello di viaggiare nelle vite dei nostri ospiti e lasciarci trasportare dai loro percorsi, sperando riescano ad ispirarci e che sicuramente ci regaleranno consigli di cui fare tesoro per il futuro

Il nostro primo ospite è Daniel Romano, un ex iStudent del V ciclo, che torna nella famiglia di iBicocca assumendo un ruolo diverso.

Ciao Daniel, benvenuto in iWrite! Fai un respiro profondo, rilassati e iniziamo: presentati pure ai nostri lettori.

Ciao, mi chiamo Daniel e nella vita sono un digital product designer! Che cosa significa? È molto semplice progetto prodotti digitali, soprattutto le App (native o web), poi gli e-commerce, i siti web, le landing page, ecc!

Sapete cosa penso? Progettare è un superpotere! È un atto di creazione, infatti durante un processo progettuale si individuano le necessità di qualcuno, si immagina qualcosa che prima non esisteva e che possa rispondere a queste necessità e lo si fa diventare realtà.

E questo qualcosa può essere in grado di cambiare il mondo in cui viviamo! Se non è un superpotere questo, allora che cosa altro dovrebbe essere?

Credo che i prodotti digitali poi abbiano qualcosa di straordinario, infatti nonostante abbiano una consistenza impalpabile rispetto ai prodotti fisici (sono fatti di software), conservano comunque questa enorme capacità di stravolgere la realtà.

Nella progettazione seguo il paradigma “utente-centrico”, un approccio che mette al centro l’utente o il sistema di utenti (umani, animali, vegetali o altro che siano)!

Parto dalla ricerca sugli utenti e arrivo a progettare la soluzione finale, ma in mezzo a questi due estremi ci sono una miriade di cose!

Prima o poi solcherò i sette mari a bordo di un gozzo, accompagnato da animali e creature fantastiche! Vuoi unirti alla ciurma? Vento in poppa ⛵

Qualche anno fa eri un iStudent ed oggi sei un ospite di iBicocca. Ti andrebbe di raccontarci la tua storia?

Certamente, molto volentieri!

Il mio percorso universitario non è iniziato in Bicocca, bensì al Politecnico di Milano  alla facoltà di “Progettazione dell’Architettura” dove ci hanno insegnato a progettare dal singolo prodotto che troviamo negli spazi che tutti noi viviamo all’intero impianto urbano.

I cinque anni passati al Politecnico mi hanno lasciato in eredità la capacità progettuale; questa può essere vista da due punti di vista differenti, da una parte come capacità progettuale specifica nell’ambito della materia architettonica e del prodotto fisico, dall’altra come capacità progettuale generale astratta dall’ambito specifico, potremmo definirla quindi “forma mentis progettuale”; il vantaggio di ciò è che è possibile applicare questa astrazione della capacità progettuale ad altri ambiti specifici diversi da quello originario.

Io credo che progettare significhi riuscire a prefigurarsi qualcosa prima che esista, proiettarne l’immagine e permettere così a una cosa di esistere ancora prima che venga effettivamente realizzata.

Al termine del mio percorso quinquennale nella progettazione avevo assunto la forma mentis progettuale, ero un tecnico (che è un modo in cui io chiamo gli operativi, cioè quelle figure che fanno, ruoli hands-on) ma avvertivo il bisogno di integrarla con una serie di abilità più gestionali e questo mi ha spinto a intraprendere un nuovo percorso di laurea triennale in “Economia delle Banche, delle Assicurazioni e degli Intermediari Finanziari” in Bicocca. Non ero sicuro riguardo dove mi avrebbe portato e nemmeno che fosse il modo giusto per integrare nel mio profilo professionale quello che volevo, ma comunque ho iniziato.

Il mio primo giorno da (nuovamente) matricola mi sono subito avvicinato al progetto iBicocca che ha cambiato il significato della mia iscrizione alla facoltà di economia: è così che sono venuto a contatto per la prima volta in modo strutturato con il mondo startup e con il mondo digital.

Per coincidenza temporale, era anche lo stesso periodo in cui avevo iniziato ad applicare la forma mentis progettuale, formata con 5 anni di Politecnico, ad un ambito nuovo per me da un punto di vista operativo/professionale, il prodotto digitale.

Le due cose, iBicocca ed imprenditorialità da una parte e progettazione del prodotto digitale dall’altra, sono andate avanti di passo passo da quel momento in avanti nella mia vita.

Questo percorso è stato il trampolino che mi ha lanciato verso il mio presente: oggi, oltre a lavorare come freelance digital product designer, sono socio fondatore di una startup in cui ricopro lo stesso ruolo di progettista del prodotto digitale – che è il nostro core business – e allo stesso tempo servo le esigenze dell’ambito business della startup, con il quale riesco a dialogare e rapportarmi senza alcuna barriera grazie alle competenze economico-imprenditoriali assunte tramite economia ed iBicocca.

Al contempo, in cantiere c’è il mio corso di Digital Product Design per trasmettere il mestiere del progettista del prodotto digitale (in giro anche detto UX e UI Designer) a chiunque provi l’interesse verso questo mondo.

In questo mondo digitale fatto di inglesismi, si sente la parola design declinata in tante forme diverse. Cosa significa UX/UI design? E come mai nel presentarti non ti sei definito tale?

Al giorno d’oggi chi si intitola “UX/UI designer”, nella grande maggioranza dei casi, non fa altro che progettare prodotti digitali cercando di dare una buona esperienza d’uso del prodotto agli utenti dello stesso; l’inglese serve a placcare d’oro e far sembrare più lucente una corona di carta stagnola (in inglese tutto ha un sapore diverso).

Per capire la definizione di UX/UI Design è necessario scomporre le parole: UX e UI sono gli acronimi di “user experience” e “user interface”; il verbo “to design” invece significa semplicemente “progettare”. Quindi il professionista in questione è qualcuno che si occupa di progettare il prodotto digitale (app, sito, ecc) per dare una buona esperienza d’uso all’utente finale.

Il termine comunque è bistrattato! La user experience, nella sua accezione completa, sarebbe l’insieme delle emozioni e delle sensazioni che l’utente prova nel suo rapporto completo con il brand, non solo con l’App, ma anche tutto il resto.

Per questo, definirsi “UX designer” (che significa “progettista dell’esperienza [totale]”), quando in realtà si progetta solo l’app o il sito e quindi si controlla solo una parte dell’esperienza (quella legata all’app o al sito appunto) è un ingigantimento del ruolo, un uso improprio del termine “user experience”.

Sarebbe più corretto dire che si è progettisti del prodotto digitale avendo come finalità una buona user experience, o se vuoi dirlo in inglese che suona meglio “user-experience digital product designer”, dove il termine “user-experience” non è più usato come nella parola “user experience designer”, ma nel senso di approccio alla progettazione del prodotto digitale.

Ps. non c’è bisogno di mettere sempre le maiuscole, non è un dramma scrivere “user experience” tutto in minuscolo.

Sappiamo che hai partecipato al Silicon Valley Study Tour come hai fatto e come pensi abbia contribuito alla tua formazione?

Ho conosciuto il Silicon Valley Study Tour (SVST) grazie ad iBicocca, infatti il V ciclo ha ospitato Paolo Marenco, co-founder dell’iniziativa che ci ha illustrato il progetto.

Appena sono venuto a conoscenza di SVST mi sono informato e ho inviato l’application per entrare a far parte di questa avventura, con cui ancora oggi collaboro.

La settimana di fuoco alla scoperta della Silicon Valley si pone l’obiettivo di portare fisicamente pochi brillanti studenti italiani nell’ecosistema imprenditoriale della Silicon Valley (California) facendoli entrare in stretto contatto con aziende come Google, Facebook, LinkedIn, McAfee, Pinterest, alcune startup di alto valore della Bay Area e università prestigiose come Berkeley e Stanford University. Il nucleo dell’esperienza è racchiuso nelle visite guidate in queste aziende e università della Silicon Valley e nella possibilità di dialogare con coloro che ci lavorano.

Non è un viaggio di tipo turistico, è un viaggio alla scoperta dell’ecosistema imprenditoriale della Bay Area, che offre un gigante carico di ispirazione e conoscenza! Ti permette di fare un tuffo dentro una realtà del tutto nuova e a te estranea per imparare modi di vivere, abitudini e mindset che con il nostro quotidiano hanno poco a che fare.

Il Silicon Valley Study Tour mi ha insegnato tantissime cose, tra queste cos’è realmente una startup e che c’è una grande differenza nel modo di fare impresa negli Stati Uniti e in Italia. Inoltre, questo tour mi ha permesso di apprezzare al meglio il ruolo che le piccole e medie imprese hanno all’interno del sistema imprenditoriale italiano (in Italia non dobbiamo per forza scimmiottare il modo di fare impresa americano).

Raccontaci del tuo progetto: come ti è venuta l’idea? Perché hai scelto proprio noi iStudent per validarla?

L’idea è estremamente semplice: mi piacerebbe insegnare la progettazione dei prodotti digitali. La motivazione che mi ha spinto a lanciare questo corso è il mio non comprendere come mai si sia generata la falsa credenza che per fare startup non sia necessario avere delle competenze specifiche, si tende a dimenticare che fare startup significa fare impresa a tutti gli effetti.

Credo nell’insegnare le competenze di cui è composta una startup piuttosto che genericamente “come fare startup”. Nello specifico, per creare una startup di tipo digitale, le competenze indispensabili sono: la capacità di progettare il prodotto digitale, la capacità di svilupparlo e la capacità di riuscire a venderlo.

Non mi va di alimentare il falso mito che con qualche mazzo di quadrifogli si possa fare successo nel mondo dell’imprenditoria e quindi cerco di essere coerente con ciò in cui credo. Credo nelle competenze, anziché nelle incompetenze. Infatti, negli ultimi anni vanno estremamente di moda queste soft skills, dimenticandosi che senza l’operatività (le competenze vere, il saper fare) sono solo un contorno.

Ho pensato di offrire questa opportunità gli iStudent perché l’ambiente di iBicocca è estremamente dinamico, composto da studenti con tanta voglia di fare e con atteggiamenti proattivi verso l’innovazione.

Credo che il mio corso possa funzionare come ponte che collega le attività pratiche con il mindset imprenditoriale ed innovativo che iBicocca vuole trasmettere.

Come hai speso le competenze apprese ad iBicocca nel mondo del lavoro? Dai tre motivi per cui vale la pena iscriversi ad iBicocca

iBicocca per me è stata la bussola che mi ha aiutato ad orientarmi e a trovare la mia strada nel mondo del digitale.

I tre motivi si possono riassumere in un unico grande consiglio da vecchio saggio che ci è passato prima di voi: cercate il giusto equilibrio tra iBicocca e studio, così da avere il tempo di dedicarvi alle attività proposte dal ciclo in tutta serenità e lasciarvi trasportare dall’entusiasmo del momento, senza però trascurare i doveri universitari.

Le attività proposte sono tutte entusiasmanti: è come se ti regalassero un seme e poi sta a chi lo riceve decidere se metterlo a frutto oppure no.

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Ambiente, società e tecnologia

Un semaforo per gli alimenti? Non esattamente: cos’é e come funziona il Nutri-score

Immaginate un sistema di etichettatura alimentare semplice, intuitivo e che aiuti a compiere scelte di acquisto consapevoli: si tratta dell’obiettivo di Nutri-Score, ideato dalla Public Health Agency francese e utilizzato per la prima volta proprio in Francia nel 2017. Si torna a discuterne oggi perché il 25 gennaio di quest’anno è avvenuta la prima riunione ufficiale della commissione transnazionale, di cui fanno parte Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Francia e Lussemburgo, creata allo scopo di coordinare, monitorare e incoraggiare l’utilizzo di Nutri-Score. Ma si torna a discuterne, soprattutto in termini scettici, in Italia: se da una parte alcuni paesi europei lo hanno accolto volontariamente, molti ritengono che questo sistema possa penalizzare fortemente i prodotti made in Italy. Da cosa nascono questo timore e queste critiche? Ma soprattutto, che cos’è e come funziona il sistema Nutri-score?

Nutri-score: cinque colori per orientare i consumatori

Quanti di noi conoscono precisamente il significato della dichiarazione nutrizionale specifica per ogni prodotto e sanno interpretare il valore nutrizionale delle percentuali di macronutrienti riportati sul retro delle confezioni? O ancora, quante volte leggiamo questa etichetta prima di scegliere quali prodotti mettere nel carrello? Nutri-score nasce per semplificare queste informazioni e renderle accessibili grazie a una scala di cinque colori, dal verde all’arancione scuro e dalla “A” alla “E”, attribuiti ad ogni prodotto sulla base di un algoritmo che assegna un punteggio considerando numerosi fattori nutrizionali. Più basso sarà il punteggio ottenuto da un prodotto, più si avvicinerà ad ottenere una “A”. I fattori che fanno avvicinare un prodotto a un’etichettatura verde sono la presenza di fibre, la quantità di frutta e verdura presente in esso e il contenuto proteico; i nutrienti invece da limitare in una dieta equilibrata, e che quindi fanno tendere il risultato ad un’etichettatura gialla o arancione, sono i grassi saturi, il sale, gli zuccheri e un contenuto calorico molto elevato; i punteggi ricavati da ogni fattore vengono sommati fino ad ottenere il Nutri-score effettivo.

Sono stati condotti esperimenti per mettere alla prova l’efficacia del Nutri-score nell’accrescere la consapevolezza dei consumatori: in uno dei più recenti, pubblicato nel sul “International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity” nel novembre 2020, è stato chiesto a diversi campioni di popolazione scelti tra paesi diversi di ordinare tre prodotti della stessa categoria alimentare in base al valore nutrizionale che ognuno dei partecipanti gli avrebbe attribuito. I partecipanti avrebbero dovuto farlo prima avendo a disposizione solamente la dichiarazione nutrizionale, poi in base al punteggio assegnato ad ogni prodotto. Il risultato sembra scontato, ma é indicativo: Nutri-score si è dimostrato più efficace della semplice dichiarazione nutrizionale nell’aiutare i consumatori a mettere nel giusto ordine i prodotti che erano stati proposti (si trattava, nel caso di questo esperimento, di  cereali per la colazione e di tipi differenti di pizze surgelate).

Le critiche al Nutri-score: quali sono le perplessità che sorgono?

Nonostante alcuni paesi europei abbiano trovato un accordo per incentivare l’utilizzo di questa etichettatura (che rimane su base volontaria per le aziende produttrici), molte critiche sono arrivate soprattutto da parte dell’Italia. Le principali sono la potenziale non aderenza di questa etichettatura al modello della dieta mediterranea e il timore che alcuni prodotti made in Italy molto apprezzati, come il Parmigiano Reggiano o il prosciutto di Parma, vengano penalizzati da un punteggio molto basso (vicino alla “D”),fino a boicottarne l’export.

Questo sistema semplifica informazioni complesse, perció non deve essere considerato un indice assoluto da cui non discostarsi. Uno dei problemi fondamentali di queste critiche sta infatti nel fraintendimento dell’obiettivo dell’etichetta Nutri-score stessa: non è stata ideata per scoraggiare i consumatori dall’acquistare prodotti etichettati con “D” o “E”, come se fossero cibi da escludere categoricamente, così come non considera il valore gastronomico e tradizionale di un prodotto. I professionisti della nutrizione sono concordi nell’affermare che nessun alimento, escluso dal contesto dell’alimentazione individuale, sia “buono” o “cattivo”: un’etichettatura di questo tipo dovrebbe aiutare il consumatore a scegliere quali prodotti acquistare più frequentemente e quali più raramente. Alla luce di questo non dovrebbe stupire il punteggio ottenuto, per esempio, da un prodotto come il prosciutto, che in quanto prodotto a base di carne lavorata dovrebbe essere limitato nella nostra alimentazione. Il fraintendimento potrebbe derivare dall’impatto grafico che ha questa etichetta: siamo infatti abituati ad associare al rosso divieto o pericolo. Una comunicazione corretta in merito a questo sistema dovrebbe allora divulgare il fatto che non si tratti di un vero e proprio “semaforo alimentare”, ma di una scala indicativa.

Un’altra critica ha avuto origine da una comparazione tra l’etichetta che questo sistema assegnerebbe all’olio di oliva, una “C”, e alla Coca Cola zero, una “B”. Questo non significa però che la prima sia più salutare o che debba essere più presente in un regime alimentare rispetto al primo: il Nutri-score è molto più utile nel momento in cui i consumatori devono comparare prodotti della stessa categoria alimentare (come è stato richiesto nell’esperimento precedentemente citato). In questo caso i consumatori sapranno cogliere immediatamente la differenza tra l’olio di oliva e altri tipi di grassi vegetali o animali, così come quella tra la Coca Cola zero e bevande molto più zuccherate. Esistono inoltre algoritmi leggermente diversi da quello usato per gli alimenti in generale sia per i prodotti composti da grassi alimentari (come olio di oliva o burro) sia per le bevande (come succhi di frutta o bibite gassate).

È inevitabile pensare che, senza una corretta guida su come interpretare le etichette Nutri-score, si possa generare la stessa confusione che il questo sistema avrebbe l’obiettivo di risolvere. Non bisogna fare l’errore però di ignorare a priori questa ed altre proposte di etichettatura volte a semplificare e guidare la scelta dei consumatori in un campo complesso come quello dell’alimentazione.

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Ambiente, società e tecnologia

Verso una detergenza eco-sostenibile

Impiegati quotidianamente, con modi quasi rituali, i prodotti di igiene personale e di pulizia domestica ci accompagnano nelle diverse fasi della giornata, scandendo le nostre routine e fungendo da continua manutenzione per il corpo, la casa, lo spazio di lavoro, la macchina. Oggi più che mai se ne promuove l’azione battericida e germicida, proprio come il medico greco Galeno consigliava per prevenire malattie.

Ciò che viene immesso nel mercato è frutto di test di sicurezza e vasta ricerca, ma naturalmente ci sono conseguenze  – quali intossicazione, avvelenamento, irritazioni, allergie – piuttosto gravi su chi li impiega, nonché sull’ambiente, che subisce un forte inquinamento, sia in fase di produzione, sia durante e dopo l’utilizzo di tali prodotti chimici altamente aggressivi. Spesso i detergenti per la casa sono accompagnati da simboli indicano che i prodotti sono nocivi, corrosivi, tossici, dannosi, (altamente) infiammabili.

L’anno 2020 è stato importante per ritornare a parlare di clima, con diversi disastri climatici da convincere una buona fetta di popolazione mondiale a optare per uno stile di vita più sostenibile. Complice anche il maggiore tempo a casa, i consumatori cercano soluzioni fai-da-te lungimiranti per ammortizzare i costi e l’impatto ambientale.

Questo trend porta le imprese a dover modificare o, addirittura ripensare, le proprie linee lavorando con ingredienti naturali e packaging riciclabili, per poter stare al passo e vendere.

Ma basta comprare prodotti con etichette che riportano la dicitura “Bio”?

Decisamente no! Di seguito approfondiremo, ma basti sapere che “biologico” è soltanto una sottocategoria di “sostenibile”, che comprende anche un’etica di diritto dei lavoratori, di rispetto del territorio e della società.

Leggendo il report di Google (datato febbraio 2021) rivolto alle aziende “adattarsi al futuro – 5 tendenze di consumo che ogni retailer dovrebbe conoscere” appare subito evidente che i consumatori abbiano due comportamenti primari nella scelta dei prodotti e dei servizi da acquistare:

  • C’è sempre maggiore interesse a rispettare valori etici di produzione e distribuzione;
  • Cercano costantemente prezzi convenienti e offerte.

Infatti, la ricerca di “ethical brands” ha registrato un picco del +300% in tutto il mondo nel 2020 rispetto al 2019. Elevato è anche il picco (+200%) di ricerche di punti vendita vicini al domicilio del cliente, certamente per questioni sanitarie legate alla pandemia, ma anche per offrire un sostegno alle piccole e medie attività locali.

 

L’arrivo del BIO nei supermercati

Nella maggior parte dei casi, i prodotti che effettivamente rispettano i criteri stabiliti per essere definiti “bio” sono pochi, più costosi da fabbricare (e quindi anche da vendere), spesso venduti in negozi di nicchia o comunque poco pubblicizzati.

Nella grande distribuzione, dove la maggior parte dei consumatori acquista i prodotti di detersione, gli scaffali sono organizzati in modo da dare rilievo innanzitutto alle offerte dei maggiori marchi e in secondo luogo ai competitors più popolari. Solo nei supermercati più forniti è possibile trovare articoli che siano conformi a standard veramente sostenibili.

Per la diffusione di una mentalità ecologica è imprescindibile essere consapevoli di poter trovare prodotti (detergenti) sostenibili e ad un costo contenuto in tutti i negozi più frequentati anche dalle fasce di reddito minore. Altrimenti, il risultato è ciò che viene descritto nell’articolo “Il tramonto del consumatore etico” di Elizabeth Cline, dove chi è informato e ha la possibilità economica, agisce sostenibile, mentre aziende non etiche continuano impunite a vendere prodotti che sfruttano i lavoratori e l’ambiente.

Vari brand, pur non avendo raggiunto nella completa totalità gli standard, stanno però facendo passi avanti e avvicinando sempre più consumatori con le loro offerte sostenibili, per (quasi) tutte le tasche e per l’ambiente.

Sono quindi necessari ulteriori provvedimenti legali e governativi per annullare i danni di chi non rispetta le normative pur potendolo fare, e al contempo per accrescere le risorse di coloro che le meritano, affinché si raggiungano gli obiettivi prefissati dalla comunità internazionale.

Vale la pena citare Garnier, figlio naturalista del colosso L’Óreal Paris, propone al pubblico nuovi prodotti piuttosto ecologici a prezzi bassi rispetto alla media, senza essere scadente. Non lo nomino perché sia campione nell’innovazione sostenibile – ci sono sicuramente molti altri brand meno noti che lo fanno meglio e da più tempo, ma è apprezzabile il fatto che abbiano reso mainstream ingredienti e formati ignorati da altri grandi aziende. Shampoo solido, packaging 100% riciclabile e lista degli ingredienti distesa e di facile consultazione, suddivisa per percentuali contenute (di cui il 98% di questi è di origine naturale).

Un altro è PuroBio, brand di make-up che dichiara di non utilizzare microplastiche e ingredienti plastici di alcun tipo e risulta sorprendentemente vero dalle analisi.

Alcuni brand ecologici specializzati nella sostenibilità

Spesso, nel percepito comune, si tende ad associare “biologico” e “sostenibile” a “meno performante” ma, come abbiamo visto precedentemente, gli ingredienti per ottenere l’efficacia desiderata sono pochi e non è necessario che siano aggressivi come l’industria ci ha fatto credere. Non tutto ciò che è chimico è nocivo o male. Al contrario, in molti campi soluzioni come la plastica o i composti sintetici sono insostituibili.

Bisogna trovare soluzioni proprio negli ambiti in cui è possibile cambiare le abitudini e fortunatamente la detersione personale e domestica sono uno di questi.

Ad esempio, minimoimpatto.com vende detersivi, detergenti e articoli per la casa che consentono di risparmiare non solo denaro, ma anche prodotto ed energia. Mentre invece Negozio Leggero vende kit per creare detersivi e detergenti personalizzati, flaconi riutilizzabili da riempire alle spine dello store e ritiro (ogni 20 flaconi, per ottimizzare i consumi del trasporto) dei vuoti a domicilio. La sostenibilità è qui resa coinvolgente grazie all’Eroe leggero dell’area personale degli users, dove possono tenere traccia dei risparmi e della riduzione del proprio impatto.

Si conta che si utilizzino annualmente 17 flaconi di sapone pro capite. Si crea quindi, per famiglia di 4 persone, una fila di 24 metri che equivale alla altezza di 8 piani.

Saponette, liquidi sfusi e packaging biodegradabili sono un buon inizio per combattere sprechi e rifiuti.

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Economia, StartUp e Fintech

Starting Finance & co.: l’economia s’impara online

Secondo un’indagine dell’OCSE l’Italia si trova al penultimo posto della classifica dei paesi del G20 per educazione finanziaria, ma c’è qualcuno che sta riuscendo nell’intento di portare l’economia a tutti, per insegnare soprattutto ai giovani, come gestire le proprie finanze.

Qual è la situazione italiana attuale e perché è importante l’educazione finanziaria

Dal report dell’OCSE emerge che più della metà degli italiani non conosce l’effetto dell’inflazione su una somma di denaro, meno della metà è in grado di calcolare un tasso di interesse semplice e solo un terzo degli italiani sa calcolare un tasso di interesse composto. Ma questi sono i dati relativi agli adulti, per i giovani studenti la situazione è ancora più preoccupante: ben il 20,9% di loro non raggiunge le abilità finanziarie minime, oltre al fatto che a distanza di sei anni nulla sembra cambiato, i punteggi sono praticamente gli stessi.  Gli investimenti da fare in quest’ambito sono dunque numerosi e i motivi dell’importanza sono molteplici, in primis: avere la consapevolezza di come gestire al meglio il proprio denaro oltre che saper ponderare in modo appropriato le scelte finanziarie per evitare di trovarsi in difficoltà e riuscire a superare la crisi. Per dirlo con le parole dell’ex segretario generale dell’OCSE: “l’educazione finanziaria è una skill fondamentale per la vita quotidiana perché questa può fare una differenza cruciale nella vita delle persone, nelle loro scelte e opportunità. È un fondamento per il benessere, l’imprenditorialità, la mobilità sociale e la crescita inclusiva

Chi vuole cambiare le carte in tavola

Nominati da Forbes tra i 30 under 30 di quest’anno, Marco Scioli ed Edoardo Di Lella hanno fondato Starting Finance nel 2018 come una semplice pagina Facebook indirizzata agli appassionati di economia e da allora è stato un susseguirsi di successi: iscritta nel registro delle imprese italiane come startup innovativa che ha costruito la più grande community di giovani che si vogliono formare in ambito economico-finanziario, obiettivo che si sta adempiendo se si contano circa i 100mila followers sui social con oltre 100 contributor tra studenti universitari appassionati che portano una media di 70 contenuti formativi e originali a settimana. La loro missione: “diventare il primo punto di riferimento per l’educazione e l’informazione finanziaria per i giovani e per chi inizia ad approcciarsi a questo settore”, seguendo tre principi cardine: informazione, educazione e gamification. Se il primo punto si concentra molto sui social dove viene portata informazione veloce, case studies e post con grafiche accattivanti riguardanti le ultime notizie; il secondo è relativo al sito dove, suddivisi per livelli “principiante, medio e avanzato” vengono trattati, come una guida, tutti i principali argomenti del mondo economico. Il terzo obiettivo è la gamification ovvero rendere maggiormente coinvolgente e interessante l’apprendimento di questa materia procedendo come fosse un videogioco e per far ciò assicurano: “stiamo lavorando ad un’app dall’interfaccia semplice ed intuitiva dove procedendo per livelli e guadagnando punti si arrivi a padroneggiare sempre di più questi argomenti”.

Da Starting Finance ai portali di educazione finanziaria

Ma il caso di Starting Finance non è l’unico, altre realtà si stanno mobilitando per fornire alle persone una base di educazione finanziaria: progetti come quello di Banca d’Italia: “economia per tutti”, un vero e proprio portale dove si possono trovare informazioni di base, progetti educativi, infografiche, notizie e quiz per mettersi alla prova, tutti basati sul potere dello storytelling e delle immagini: sono stati creati dei veri e propri episodi che vedono come protagonisti persone di tutti i giorni alle prese con piccoli problemi economici quotidiani.

Rivolto ai giovanissimi ragazzi delle scuole è il progetto di Feduf, Fondazione in collaborazione con il MIUR che “promuove la diffusione dell’educazione finanziaria partendo dalla scuola attraverso progetti specifici, che si basano su una comunicazione semplice ed empatica”

Anche i giovani si cimentano, e ne parlano sui social

Riccardo Zanetti a prima vista sembrerebbe un normale ragazzo di 23 anni, studente di economia e appassionato di tutto ciò che concerne il mondo digital, ma le cose stanno diversamente: founder e CEO di Revives, società che si occupa di capitale di rischio e private equity, oltre che di altre tre realtà e un canale Youtube da 200 mila iscritti. Dalla sua residenza londinese, racconta attivamente le sue avventure imprenditoriali, accompagnando i ragazzi che lo seguono in video coinvolgenti dove spiega con parole semplici e adatte ad un pubblico di non esperti concetti anche complessi di economia e di business. La parola d’ordine è trasparenza dato che il video “Ecco quanto guadagno su Youtube” ha superato il mezzo milione di visualizzazioni.

Ma Youtube non è l’unico mezzo e pagine social come “pillole di economia“ e “economia in 10 secondi”, rendono ogni tempo morto un’occasione per conoscere qualche nozione in più in modo leggero e accattivante. E per chi non ha tempo di guardare il cellulare, esistono diversi podcast come: “investire semplicemente”, “finanza amichevole” di Alessandro Fatichi, “incassaforte pod” e il podcast di Marco Montemagno, solo alcuni tra i tanti.

Diventare protagonisti: le app che ci aiutano

Gli investimenti sono una componente fondamentale del mercato, ma spesso capita che le persone non abbiano idea di dove partire pensando che sia troppo difficile o che siano necessarie somme astronomiche, ma i ragazzi di Oval money la pensano diversamente. Oval money è un’app intuitiva che ha lo scopo di “fornire un nuovo modo di gestire le proprie finanze, facendo crescere il proprio capitale risparmiando e investendo in modo totalmente sicuro e protetto da identificazione biometrica”, il loro motto: “le buone abitudini pagano” rende l’idea di come le piccole azioni quotidiane possano contribuire alla nostra sicurezza monetaria. Sono proprio le abitudini di spesa e risparmio che quest’app aiuta a monitorare fornendo degli strumenti come la possibilità di collegare tutti conti e le carte di pagamento per controllare ogni transazione e consultare le analytics. La possibilità di creare delle proprie regole smart rende l’app molto interattiva che aiuta a tenere alta la motivazione: “ogni settimana metti da parte 10 euro” oppure “ogni 10 km che fai a piedi investi 15 euro”.

Partire ancora prima: come la scuola potrebbe favorire

Sicuramente gli strumenti messi a disposizione dal web oltre che corsi e letture possono favorire i giovani nella comprensione dell’economia e della finanza personale, ma per avere adulti preparati, un percorso autonomo potrebbe non bastare, servirebbe implementarlo nel sistema scolastico italiano ed insegnarlo sin dalle elementari partendo da ciò che viene definita “alfabetizzazione finanziaria”. Se l’iniziativa #ottobreedufin2020, il mese dedicato all’educazione finanziaria, ha riscosso successo, il prossimo passo potrebbe essere quello di ampliarlo al fine di rendere le generazioni successive in grado di gestire il proprio portafoglio, perché di sicuro non si impara a investire in borsa guardando un paio di video sul web, ma ogni grande “scalata” inizia sempre con un passo.

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Entertainment, videogame e contenuti

Discord: non solo gamers

Discord è un’applicazione nata nel 2015 come piattaforma di comunicazione per gamers. Nel corso degli anni ha visto la nascita di vere e proprie community di persone che hanno realizzato i loro server per parlare dei loro più svariati interessi ed ospita ad oggi oltre 100 milioni di utenti in tutto il mondo.

Storia, evoluzione e funzionalità

Discord è stata lanciata da Jason Citron (CEO) e Stan Vishnevskiy (CTO) per facilitare la comunicazione tra i gamers. Come spiegato negli articoli de La Stampa e Protocol, la maggior parte dei giochi collaborativi online offre un sistema di comunicazione mal organizzato, per cui spesso i gamers si riducevano a cercare giocatori su piattaforme esterne, ad esempio nei forum di Reddit. L’idea di Discord è proprio quella di offrire dei server dedicati, specifici per i diversi giochi, dove i giocatori possono incontrarsi, discutere e condividere contenuti. La piattaforma offre un’interfaccia semplice ed intuitiva con overlay di gioco e diverse funzionalità per gestire le tattiche di squadra in tempo reale. Con questi accorgimenti riesce a distinguersi dalle principali alternative: Skype e TeamSpeak, considerate di difficile utilizzo in-game, a causa delle loro interfacce poco user-friendly.

Discord viene definita dagli sviluppatori come una piattaforma che “rende più facile chiacchierare ogni giorno e ritrovarsi più spesso”. Probabilmente questa definizione risulta un po’ limitante viste le numerose opportunità offerte. Se vogliamo darne una definizione più tecnica, Discord è una piattaforma di VoIP (tecnologia che permette di sostenere una conversazione sfruttando una rete internet), messaggistica istantanea e distribuzione digitale.

Da queste definizioni non sembra diversa da tante altre piattaforme ed applicazioni. Una caratteristica che, invece, la differenzia dalla concorrenza è la possibilità di creare un tuo server da organizzare secondo le tue esigenze e da condividere con amici o colleghi. All’interno dei server potrai trovare canali testuali e chat vocali, organizzate per argomenti. Potrai entrare ed uscire dai canali in qualsiasi momento della giornata, unirti alle conversazioni ed accedere alle chat in ogni istante. L’innovazione portata da questa modalità è che, a differenza delle concorrenti Google Meet e Zoom, l’accesso ai server non necessita un link di invito, ma è possibile saltare da una stanza all’altra con un semplice click.

Discord non si dimentica nemmeno di chi si trova da solo nel canale, offrendo una serie di bot che permettono le più svariate attività: è possibile ascoltare le canzoni preferite o divertirsi con giochini di intrattenimento. I bot permettono infatti di personalizzare un server, non solo con contenuti di intrattenimento, ma anche con funzioni davvero utili, ne sono un esempio i traduttori in tempo reale ed i bot moderatori del server. La figura del moderatore ricopre infatti un ruolo fondamentale. Discord fornisce tutti gli strumenti per rendere il proprio server un luogo sicuro, mettendo a disposizione degli utenti la Moderator Academy: una vera e propria guida ad una gestione sicura ed efficace del server.

Com’è possibile intuire da queste funzionalità, sebbene Discord sia nato per soddisfare le esigenze dei gamers e sia ad oggi utilizzato da diversi streamer Twitch (di cui parliamo nel nostro articolo), si è diffuso tra persone di tutte le età e professioni.  Come riporta il sole24ore, sul loro sito vengono vantati più di 100 milioni di utenti attivi al mese con 13,5 milioni di server attivi che hanno registrato un totale di 4 miliardi di minuti di conversazione. Tra questi possiamo trovare club sportivi, comunità artistiche, gruppi studio e persino aziende.

Discord vs Slack per le aziende

Diverse aziende hanno infatti deciso di adottare Discord per gestire la comunicazione aziendale, considerandolo una valida alternativa all’applicazione concorrente: Slack. Entrambe rispondono infatti all’esigenza di un metodo di comunicazione efficace, rapido e strutturato. Come evidenziato nel confronto proposto da Bitboss, rispetto a Slack, Discord offre un sistema di gestione dei ruoli più potente e personalizzabile ed una semplice procedura di creazione di stanze e canali per riadattare il server ad una miglior gestione dei diversi progetti, senza dimenticare uno spazio realax, dedicato al piacere di una buona chiacchierata. Le attenzioni di Discord per fornire server sempre più personalizzabili e non più dedicati al solo ambito del gaming sono all’ordine del giorno, tanto che a marzo Discord ha cambiato il suo motto da “Chat for Gamers” a “Chat for Communities and Friends”.

La sua versione di Clubhouse

Negli ultimi mesi Discord ha acquistato maggiore visibilità, complice la quarantena e i diversi post che lo citano confrontandolo a Clubhouse (presentato nel nostro articolo e considerato il social del momento), nonostante risulti evidente come l’offerta di Discord sia decisamente più ampia. Qual è stata la risposta a questo paragone? Lo Stage Channel: una nuova tipologia di canale lanciato in beta, strutturato in modo da permettere ad una serie di “eletti” di parlare e concedere la parola a chi del pubblico chiede di intervenire. Queste premesse suggeriscono un format molto simile a Clubhouse, che tuttavia, come suggeriscono su HT Tech, non sarà disponibile tanto presto, ma è attualmente accessibile scaricando la Public Test Builds che propone una versione iniziale della funzione.

Discord in numeri

Non è difficile intuire come gli effetti del lockdown si siano fatti sentire nel numero di utenze, Discord vanta oggi 100 milioni MAUs (dall’ingese monthly active users: utenti attivi al mese) ed ha raggiunto un picco di 10,6 milioni di utenti attivi contemporaneamente. Come riportano le analisi di Businessofapps, la piattaforma vanta 130 milioni di dollari in entrata nel 2020, con una crescita del 118% annuo. La maggior parte dei ricavi provengono da Nitro: un abbonamento che permette maggiori opzioni di personalizzazione del profilo, maggior qualità in streaming e screen-sharing ed altri vantaggi per il miglioramento del proprio server.

Discord può vantare oggi 300 milioni di account, 850 milioni di messaggi e 4 bilioni di minuti di conversazione ogni giorno. Come abbiamo visto, i tentativi di Discord nell’allargare i propri orizzonti stanno ottenendo i primi risultati, con un’ottima risposta da parte della community. Ad oggi il server più popolato è quello di Fortnite, un videogioco sviluppato da EpicGames di cui abbiamo parlato nel nostro articolo, con 571 mila utenti, seguito da Minecraft con 569 mila utenti. Riuscirà Discord a scrollarsi di dosso l’etichetta di “chat per gamers”? Non ci resta che aspettare e vedere la risposta della community.

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Economia, StartUp e Fintech

Up2you, la soluzione per la riduzione dell’impatto ambientale: intervista a Eleonora Peroni

Sul nostro magazine oggi vogliamo riportarvi l’intervista a Eleonora Peroni, Key Account di Up2you, startup innovativa a vocazione sociale con l’obiettivo di ridurre il nostro impatto sul pianeta.

 

Eleonora, iniziamo con il ricordare che sei un iStudent (del ciclo 7.0): quanto è stato importante per il tuo percorso di crescita professionale e cosa ti ha lasciato?

Ho partecipato ad iBicocca durante l’ultimo anno della triennale e grazie a questo progetto mi sono appassionata al mondo delle startup e dell’imprenditorialità a tal punto da influenzare la mia scelta della magistrale. Adesso studio Global Entrepreneuship Economics and Management. Sempre tramite iBicocca ho conosciuto i ragazzi di Startup Geeks e attraverso il loro canale Telegram ho conosciuto Up2you, quando ancora era solo un’idea di 3 ragazzi. Fin da subito mi sono appassionata al progetto e ho deciso di mettermi in gioco con loro.

Percorso professionale che ti ha portata a contatto con Up2you. Innanzitutto, da quanto siete presenti sul mercato e da quante persone è composto il vostro team?

Il 2019 è stato l’anno della validazione del prodotto e a gennaio 2020 Up2you è stata ufficialmente costituita. Nello specifico, al momento della costituzione, gli unici soci erano i 3 fondatori: Andrea Zuanetti, Lorenzo Vendimini, Alessandro Broglia.

Ai tempi il team era formato solo da 6 persone, adesso siamo in 14. Oltre ai 6 soci, abbiamo persone con contratto a progetto e altre in stage (diversi provengono proprio dalla Bicocca).

In cosa consiste l’offerta che proponete, a chi è rivolta e cosa vi distingue rispetto ad altre realtà imprenditoriali mosse dalla stessa visione ecologica?

Up2you è una startup che si occupa di sostenibilità. Lavoriamo con le aziende su tutto quello che è il calcolo e la compensazione delle emissioni di CO2, andando a coinvolgere gli stakeholder di riferimento (dipendenti o clienti).

Oltre al calcolo e alla compensazione, il nostro terzo asset è la parte di comunicazione. Ci siamo resi conto che, in Italia, l’ecosistema è formato da PMI e in poche possiedono le risorse necessarie (in termini di personale e tempo) per comunicare al meglio il proprio impegno per l’ambiente. La sostenibilità, se comunicata bene, porta, infatti, anche dei ritorni in termini economici.

Parallelamente a questa parte più aziendale, abbiamo sviluppato anche una piattaforma in cui chiunque si può registrare e ricevere punti, in cambio di azioni sostenibili come fare l’indifferenziata o andare a lavoro in bicicletta. I punti ottenuti sono successivamente spendibili all’interno di shop virtuosi che abbiamo inserito nel nostro network.

Al momento la parte più importante proviene dal mondo delle aziende, anche perché, in termini di bisogno ambientale, è la parte sui cui bisogna agire più in fretta, pertanto siamo concentrati maggiormente su di esso.

Per quanto riguarda gli elementi che ci distinguono, innanzitutto siamo una delle poche aziende che si occupano di compensazione attraverso progetti sul suolo italiano. Rispetto invece alla parte di compensazione più pura, ci basiamo sui GRI, gli standard a livello internazionale per il calcolo delle emissioni e andiamo ad operare sulla CO2 verificata dai Verified Carbon Standard e dai Gold Standard, i 2 player di riferimento per quanto riguarda la compravendita di CO2 certificata a livello mondiale. Siamo l’unica startup in Italia che utilizza questi standard.

L’ultima componente che ci distingue riguarda il coinvolgimento. L’azienda coinvolge i propri dipendenti o clienti dando loro un codice univoco, che gli consente di scegliere dove piantare il proprio albero e ricevere un certificato che può condividere sui social con il logo dell’azienda, aiutando a generare contenuto a favore di quest’ultima.

Quali sono i vostri obiettivi di breve e lungo periodo?

Riguardo agli obiettivi legati alla sostenibilità, per andare a compensare le emissioni abbiamo dei progetti di riforestazione, sia in Italia che all’estero, e proprio sull’Italia vogliamo focalizzarci in questo 2021. Ad oggi abbiamo 2 progetti su Milano, uno in Sicilia e in Sardegna. Tra poco entrerà la Puglia e vorremmo arrivare entro la fine dell’anno ad avere un progetto in ogni regione. Non è semplice perché la scelta dei progetti non è dettata dal caso.

Devono essere boschi costituiti in maniera abbastanza coerente e l’impatto del progetto stesso deve essere a 360°. La spiegazione di questo è data dai 3 pilastri su cui si fonda la sostenibilità: sostenibilità ambientale, che rappresenta una componente fortissima soprattutto nel nostro business, la sostenibilità sociale ed economica.

Cerchiamo sempre dei progetti che possano avere un impatto su tutte e 3 queste sfere.

Per esempio, il progetto che abbiamo in Sardegna, nella zona del sud, fornisce lavoro a persone disoccupate locali che pertanto non sono costrette a lasciare l’isola per trovare lavoro.

In termini di sviluppo, noi lavoriamo su diversi settori perché abbiamo aziende che vengono dal mondo del turismo, ristoranti, aziende industriali e il nostro obiettivo per quest’anno è quello di espanderci sul territorio nazionale. Anche se, ovviamente, non disdegniamo clienti internazionali.

Siete focalizzati su un determinato settore? Motivo e come vengono applicate e come si sviluppano le vostre offerte?

No, non siamo focalizzati su un determinato settore. Abbiamo servizi per tutte le aziende, che possono essere dall’acciaieria che vuole compensare le emissioni ai ristoranti che vogliono fornire un codice per piantare un albero. Poi abbiamo dei servizi più ad hoc per quelli che noi definiamo “verticali”. Per esempio, sul mondo del turismo, quello dal quale siamo partiti, abbiamo un verticale che si chiama “Non disturbare”. Consiste in un gancio da appendere alla porta della camera dell’hotel, su base volontaria e a discrezione dell’ospite. Se l’ospite lo appende, rinuncia per una notte al rifacimento della camera e in cambio riceve il codice per piantare l’albero.

Abbiamo dei servizi legati all’engagement dei dipendenti: creazione di una guida all’interno dell’azienda per essere più sostenibili nei confronti dei dipendenti e, assieme ad essa, forniamo un codice per poi piantare un albero, quindi si crea la foresta dell’azienda, oppure una volta che viene assunto qualcuno si pianta un nuovo albero. Attività di questo tipo.

Però non siamo focalizzati su un solo settore. Un po’ come dice il nostro nome Up2you, tradotto vuol dire “sta a te”. Il nostro claim è che tutti possono fare la differenza nel loro piccolo. Quindi, banalmente, se si ha un negozio di vestiti e si vuole comunque ridurre il proprio impatto, una soluzione la possiamo trovare. Il concetto è che non bisogna essere grandi aziende multinazionali per essere aziende sostenibili, anzi.

Come ha impatto il Covid-19 sulla vostra attività e, più in generale, quali difficoltà avete riscontrato durante il vostro percorso?

Innanzitutto, è doveroso dire che siamo partiti dal mondo del turismo, che rappresenta il settore più colpito, sulla base dei dati, dalla pandemia, e tuttora fatica a ripartire.

L’inizio delle chiusure, e tutto quello che ne è seguito, ha portato ad un’accelerazione del nostro progetto, quindi ad una differenziazione del prodotto e all’inserimento di altre realtà (le aziende appunto). Quindi, su quello, siamo stati velocizzati.

Durante il periodo di lockdown i 3 fondatori e una quarta persona hanno deciso di licenziarsi dal loro impiego e dare disponibilità full-time ad Up2you, ottenendo così un grosso boost.

A livello di domanda abbiamo notato che sempre più persone tengono conto della sostenibilità nelle proprie scelte di consumo. Ecco dunque che le aziende stesse iniziano a vedere l’investimento nella sostenibilità non più come un “di più” ma come qualcosa di necessario.

Quali risultati avete ottenuto?

Ad oggi abbiamo piantato 20.000 alberi, abbiamo compensato 40.000 tonnellate di CO2 attraverso 12 progetti e con l’aiuto di 95 aziende partner.

Ma ovviamente questo è solo l’inizio.

Attraverso il vostro primo round di finanziamento avete raccolto 200 mila euro. Come saranno investire le risorse raccolte e quali sono le vostre prospettive future?

La raccolta che abbiamo fatto era su base privata. Non ci siamo appoggiati su nessuna piattaforma, ma abbiamo creato noi una landing page.

La raccolta è stata il nostro FFF (family, friends and fool) e in 3 settimane abbiamo raccolto quella cifra.

La parte di prodotto avrà sicuramente un ruolo fondamentale. I soldi raccolti serviranno poi per finanziare attività accessorie quali la partecipazione a fiere e simili.

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Entertainment, videogame e contenuti

Loot box: il gioco d’azzardo a portata di bambino?

Durante la seduta del 9 marzo, il Bundestag – la Camera bassa del Parlamento tedesco – ha votato a favore di una riforma del Young Protection Act atta a regolamentare dinamiche “simili al gioco d’azzardo” presenti in videogiochi con target inferiore ai 18 anni. Più in particolare, stando a una nota riportata sul sito ufficiale del Bundestag ma poi ritrattata, la riforma dovrebbe “vietare” ai minorenni tutti quei titoli contenenti sistemi di loot box. Ma cosa sono queste “loot box”? Se non ne avete mai sentito parlare, non preoccupatevi: in Italia la discussione pubblica al riguardo è stata a mala pena accennata negli scorsi anni. Diversa è, invece, la situazione in altri paesi – soprattutto europei – dove la questione ha già attirato l’attenzione della politica e dei vari legislatori nazionali. Cerchiamo di capirne il perché.

Cosa sono

A dire il vero, il concetto di “loot box” in sé non è nulla di complicato da capire. Si tratta, infatti, di oggetti virtuali acquistabili che possono essere riscattati per ricevere in cambio una selezione casuale, detta appunto “loot”, di oggetti come elementi estetici (ricordate il fenomeno delle skin di Fortnite? Ne abbiamo parlato qui) o strumenti utilizzabili in-game. Spesso queste loot box assumono, nel gioco, l’aspetto di scrigni, casse o pacchetti apribili, però, solamente spendendo una certa quantità – che ovviamente può variare da gioco a gioco – di valuta virtuale, a sua volta acquistabile spendendo soldi reali. Essenzialmente potremmo paragonarlo all’acquisto di una bustina di figurine: sai cosa compri ma non sai cosa trovi. Il tutto, però, ibridato con meccaniche sospettosamente vicine a quelle delle slot machine che, a differenza di quanto avverrebbe con un pacchetto di figurine, rendono totalmente casuale il valore del loot acquistato. Con la stessa cifra spesa si potrebbero trovare elementi di gioco rarissimi e rivendibili online per cifre ben superiori al prezzo d’acquisto della loot box oppure… Nulla. Lascio a voi immaginare quanto sia probabile il primo dei due scenari rispetto al secondo.

Spoiler: in realtà le percentuali di “vincita” sono per lo più ignote (in alcuni giochi non esistono nemmeno effettive percentuali di cui tener conto) ed è questo l’elemento principale che avvicina pericolosamente le loot box al gioco d’azzardo.

Tutto cio’ e’ legale in italia?

Tuttavia, si potrebbe obiettare che se un giocatore decidesse in piena autonomia di prendersi il rischio e, magari, acquistare decine di loot box dovrebbe poterlo fare. D’altronde i soldi sono suoi e sta alla sua volontà scegliere come spenderli. In realtà, questa è una mezza verità e, in ogni caso, rappresenta solo parte del problema. In Italia, infatti, il gioco d’azzardo è illegale e può essere organizzato solamente previa autorizzazione dell’Azienda Autonoma Monopoli di Stato. Autorizzazione che, tuttavia, non è richiesta per i sistemi di loot box, essendo quest’ultimi non considerati, nel nostro Paese, gioco d’azzardo. Tutto queste li rende, di fatto, una forma parallela e legalizzata di quest’ultimo. Posto quindi che i sistemi di loot box si trovano in un’area grigia tra gioco e gioco d’azzardo, il problema principale si pone quando si considera chi effettivamente ne fa uso.

Qualcuno pensi ai bambini!

Stando a uno studio, infatti, il 58% dei videogame più popolari sullo store Google Play contiene loot box. Detto questo, vi basterebbe accedere allo store per notare che la stragrande maggioranza (se non la totalità) dei titoli con più download su Google Play ha un target che va dai 3 o dai 7 anni in su. Senza considerare, tra l’altro, che si tratta quasi sempre di giochi free-to-play, cioè accessibili senza alcun costo iniziale. Ciò comporta che, inevitabilmente, sono anche i giochi che più spesso vengono scaricati e giocati da minorenni. Va da sé che le loot box potrebbero diventare, e nella maggior parte dei casi sono, il primo contatto reale con il gioco d’azzardo dei giovanissimi videogiocatori. Ciò li spingerebbe, come spiegato dallo psicologo e giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Milano Simone Feder ad Ansa, ad assumere una mentalità “caratterizzata dall’affidarsi alla fortuna e utilizzare denaro, invece delle proprie abilità”.

Come si sono mossi gli altri paesi?

Alla luce di tutto ciò, non stupisce, quindi, che i principali provvedimenti presi in giro per il mondo riguardino principalmente la tutela dei minori. Nella maggioranza dei casi, però, si tratta comunque di provvedimenti “soft” che non comportano l’equiparazione delle loot box al gioco d’azzardo – il che le renderebbe illegali – ma l’obbligo di riportare sulle confezioni (o nella descrizione in caso si tratti di versioni digitali) un segnale che evidenzi la presenza di loot box, se non, addirittura, l’imposizione del rating 18+. Tuttavia, in alcuni paesi come il Belgio, le loot box sono state dichiarate illegali nel 2020 portando molti publisher a rimuovere i propri prodotti dai vari store digitali. In altri, invece, come Olanda e Stati Uniti, non è raro che vengano organizzate, e spesso vinte, class action. A dirla tutta, anche in Italia qualcosa si è fatto: verso la fine dello scorso anno, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha adottato nuovi standard di trasparenza per i videogiochi in cui sono presenti acquisti in-game, con particolare attenzione a quelli con sistemi di loot box. Quest’ultimi, però, si limitano all’obbligo di rendere chiaramente visibile il logo PEGI (che indica il rating del gioco) e di esporre un avviso che informi l’utente della possibilità di ulteriori esborsi di denaro durante il gioco. Troppo poco.

Vedremo, dunque, verso che direzione andranno le legislazioni nazionali, sperando che, prima o poi, il problema venga messo in luce anche nel nostro Paese. Bisognerebbe, comunque vada, tenere a mente che, come rilevato da diversi studi, le loot box provocano “un irresistibile impulso al gioco e una crescente tensione che potrebbe essere alleviata solo giocando” che, di conseguenza, possono abituare il minore a dinamiche simili a gioco d’azzardo predisponendolo più facilmente a comportamenti economicamente rischiosi.

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Ambiente, società e tecnologia

Extreme E: il rally innovativo e sostenibile tutto da scoprire

Gli sport automobilistici hanno sempre appassionato milioni di tifosi in tutto il mondo. Nell’ultimo periodo però, a causa dei dibattiti sul cambiamento climatico, sono nate diverse polemiche su quanto sia corretto seguire uno sport che inquina.

Proprio negli ultimi anni è stata trovata una soluzione molto interessante e promettente che potrebbe rivoluzionare il mondo delle corse automobilistiche.

Questo weekend, sabato 3 e domenica 4 Aprile, nel deserto dell’Arabia Saudita, avrà inizio la prima stagione di una nuova serie sportiva che ha già suscitato molta curiosità: stiamo parlando di Extreme E.

Si tratta di un campionato che ha come protagonisti dei SUV in grado di gareggiare in ambienti estremi.

Cosa li distingue dagli altri veicoli da corsa rally? Il fatto che siano provvisti di un motore elettrico a zero impatto ambientale.

Lo scopo di Extreme E è di organizzare delle competizioni con protagoniste vetture elettriche in alcuni degli angoli più remoti del pianeta, con l’intenzione di sensibilizzare gli spettatori sui temi legati alla salvaguardia dell’ambiente ed evidenziare le sfide che i differenti ecosistemi sono costretti ad affrontare a causa dell’uomo.

In questo modo si cerca di incoraggiare il pubblico a dare il proprio contributo attraverso il maggiore utilizzo di energie rinnovabili.

Com’è nato Extreme E

L’idea di questo sport automobilistico innovativo è nata un paio di anni fa dalla mente dell’attuale CEO di Extreme E, Alejandro Agag, e dal campione del mondo nella Champ Car Gil de Ferran, i quali si sono posti l’obiettivo di realizzare un’”avventura spettacolare e affascinante per mostrare gli effetti del cambiamento climatico sul nostro pianeta attraverso la scoperta di ambienti remoti per mezzo di una competizione sportiva”.

Il progetto è diventato realtà in soli due mesi e gli E-SUV sono stati mostrati per la prima volta al pubblico nel 2019.

Tra pochi giorni Extreme E affronterà la sua prima stagione di sempre e noi spettatori avremo finalmente modo di scoprire ed esplorare questa nuova competizione, carica di tanta adrenalina sempre nel rispetto della natura.

Modalità di svolgimento delle gare

La sfida che porterà alla vittoria vede coinvolte otto squadre: ogni team è costituito da due piloti, un uomo e una donna, che durante ogni gara dovranno completare due giri del percorso stabilito, per un totale di 16 chilometri.

Ogni pilota dovrà guidare per un giro, mentre l’ordine dei conducenti è scelto dal team stesso, in quanto è considerato una scelta strategica.

Il weekend della corsa sarà caratterizzato da una serie di prove specifiche divise tra le due giornate: il sabato sarà dedicato alle qualifiche per decretare la griglia di partenza per la corsa finale, mentre la domenica si focalizzerà sulla gara in seguito alla quale scopriremo il team vincitore del weekend.

Costituzione dei team

I team protagonisti di Extreme E sono formati da piloti validi e con esperienza.

Alcuni protagonisti della Formula 1, tra cui il campione Lewis Hamilton e l’ex campione Nico Rosberg, hanno contribuito alla realizzazione del progetto tramite la creazione dei propri team da corsa.

Un altro ex campione di Formula 1, Jenson Button, ha invece deciso di parteciparvi in prima persona.

Si tratta sicuramente di un ulteriore modo per attirare l’attenzione su uno sport molto promettente che si fa carico di un’ottima causa.

Come abbiamo già accennato in precedenza, le squadre di Extreme E sono tutte costituite da due piloti, un uomo e una donna.

Ciò dovrebbe sembrare normale, ma non è affatto così dal momento in cui è estremamente raro che il numero di uomini e donne coinvolte in una competizione sportiva sia uguale, soprattutto quando si gareggia su vetture da corsa.

Extreme E si impegna così anche a ridurre il gender gap, creando un contesto sportivo in cui la disuguaglianza di genere non esiste e in cui entrambi i piloti della squadra hanno le stesse responsabilità e meriti.

Per promuovere l’uguaglianza di genere, Extreme E ha inoltre creato un video in cui racconta come uomini e donne gareggeranno insieme in maniera equa, dimostrando quanto ciò dovrebbe diventare consueto.

 

Dove ci porterà il viaggio?

Extreme E ha pianificato un itinerario insolito e molto particolare per far svolgere le competizioni dei SUV.

Infatti, non avranno luogo in circuiti attrezzati, ma lo spettatore verrà coinvolto in un vero e proprio viaggio alla scoperta di paesaggi mozzafiato di natura incontaminata.

Per la prima volta, la location in cui si svolgeranno le gare non sarà semplicemente una cornice per le vetture, ma diventerà anch’essa protagonista dell’evento.

I cinque ambienti scelti dagli organizzatori di Extreme E sono completamente diversi tra loro, ma tutti affascinanti e accomunati dal fatto che il cambiamento climatico e le azioni irresponsabili dell’uomo li stiano mettendo in pericolo.

Nel corso di quest’anno verranno scoperti cinque ecosistemi di quattro continenti differenti: il deserto dell’Arabia Saudita, il lago Retba in Senegal, la regione artica in Groenlandia, la foresta tropicale del Brasile e infine la Terra del Fuoco in Argentina.

L’opportunità di gareggiare e scoprire questi ecosistemi è possibile solamente grazie al fatto che i SUV non inquinino.

In futuro, oltre a stringere ulteriori collaborazioni con partner che hanno a cuore la questione ambientale, Extreme E si impegnerà anche a supportare ricerche scientifiche per trovare soluzioni che possano ripristinare questi luoghi già danneggiati e a rischio di sopravvivenza.

La meta di Extreme E

Alejandro Agag, CEO di Extreme E, ha spiegato il motivo che lo ha spinto a realizzare questo progetto: “…Ho visto con i miei occhi gli impatti del cambiamento climatico e ho incontrato persone che stanno subendo i suoi effetti. Per tutti coloro che negano la sua esistenza o che sono inconsapevoli dei problemi che sta causando, vi invito ad accompagnarci durante questo viaggio”.

Inoltre, ha affermato: “Abbiamo raggiunto molti obiettivi in pochissimo tempo, ma siamo solo all’inizio. Prima Extreme E era solamente un’idea ma ora è diventata realtà, una speciale odissea senza precedenti che guiderà il vero cambiamento”.

Non ci resta che scoprire le emozioni che la nuova competizione sarà in grado di regalarci, impegnandoci anche a dare il nostro contributo per costruire un futuro più sostenibile perché, come suggerito dal motto di Extreme E, “la corsa per il pianeta è adesso”!

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Ambiente, società e tecnologia

PsyNot: analisi di uno stigma

La “notizia”

“Secondo i dati forniti dall’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, nel suo focus “Fare i conti con la salute mentale”, la depressione grave, il disturbo bipolare, la schizofrenia e le altre malattie mentali gravi riducono la speranza di vita in media di 20 anni rispetto alla popolazione generale, in modo analogo alle malattie croniche come le malattie cardiovascolari. Il 5% della popolazione mondiale in età lavorativa ha una severa malattia mentale e un ulteriore 15% è affetto da una forma più comune. Una persona su due, nel corso della vita, avrà esperienza di un problema di salute mentale e ciò ridurrà le prospettive di occupazione, la produttività e i salari.”

Queste sono le frasi più dure che l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) sceglie di usare per introdurre il lettore ad una dimensione socialmente e culturalmente ramificata in tutte le “classi di uomini”; una dimensione che si è ritrovata, come improvvisamente, al centro del dibattito mondiale mostrando la sua elevata capacità di impattare “sulla salute, sulla qualità della vita della popolazione e sulla sostenibilità dei costi dell’assistenza alle terapie farmacologiche e di supporto”.

“Come improvvisamente” tra le virgolette perché in realtà c’erano già i presupposti per impedire l’intensificarsi delle malattie mentali: nel 1997, infatti, era stata indetta, a Jakarta, la 4° Conferenza internazionale sulla promozione della salute, durante la quale era stato siglato l’accordo che porta il nome di Dichiarazione di Jakarta su come guidare la promozione della salute nel 21° secolo. In tale accordo vennero definiti gli aspetti necessari per riuscire ad abbattere le disparità in campo sanitario quali “la pace, una casa, l’istruzione, la sicurezza sociale, le relazioni sociali, il cibo, un reddito, l’attribuzione di maggiori poteri alle donne, un ecosistema stabile, un uso sostenibile delle risorse, la giustizia sociale, il rispetto dei diritti umani e l’equità”.

Ancora oggi, però, essi risultano essere aspetti che il settore della sanità, da solo, non è in grado di garantire; quindi i governi, i vari settori socio-economici, le organizzazioni governative e quelle volontarie, sono tenuti a definire un piano di azione comune con strategie e programmi di promozione alla salute adattabili ai bisogni locali in sé dei paesi e delle regioni, nonché ai diversi sistemi sociali, culturali ed economici.

Il discorso così trattato, mette in luce una costante della dimensione moderna ovvero la nozione di “normale” nella sua duplice veste: la troviamo nella sua asserzione descrittiva (da qui “normalità”) perché rappresenta “il risultato di un calcolo statistico, di un’osservazione empirica su comportamenti comuni e diffusi in un determinato contesto storico-sociale”; e in quella prescrittiva ad indicare normatività ovvero ad indicare le regole comuni da seguire per rientrare in una determinata categoria e così rispettare l’equilibrio socio-culturale di ogni società.

Basti pensare che la diagnosi stessa della malattia mentale dipende dai progressi della farmacologia e dal suo potere decisionale oltre che dalle credenze di uno stato: negli Stati Uniti, per esempio, il sistema assicurativo sanitario si regola in base alle definizioni fornite dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSMManuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) redatto dall’American Psychiatric Association (APA), mentre nella maggior parte degli stati (193 per la precisione) ci si rifà al sistema di classificazione chiamato International Classification of Diseases (ICDClassificazione Internazionale delle Malattie) stilato dall’OMS.

Detto ciò, risulta quindi evidente e doveroso guardare indietro prima di trattare le soluzioni ad ora adottate (in funzione di queste linee guida generali e standard)…

Le cause economico-giuridiche

Riprendendo i concetti di normalità e normatività sopra citati, è possibile arrivare alle cause dietro l’aumento delle malattie mentali.

Li si collega, infatti, a quanto detto da Sigmund Freud nel suo libro “Disagio della civiltà” (1929): l’uomo è disposto a vivere in una civiltà che ne limiti le libertà e, di conseguenza, ne limiti la capacità (spesso assoluta) di essere felice, pur di non perdere la garanzia di sopravvivenza e la sicurezza economica e giuridica che gli spetta.

Se ne deduce che quando tale equilibrio viene meno, l’insicurezza trova terreno fertile. E a quale periodo si riconduce l’inizio della fine? Agli anni ‘70, ovvero agli anni della crisi energetica provocata da un sostanziale aumento del prezzo del petrolio a scapito di Israele e dell’Occidente. Una decisione presa dall’OPEC per dimostrare solidarietà all’Egitto e alla Siria durante la Guerra del Kippur (contro Israele). Una guerra di potere che ha messo in ginocchio l’economia dei più deboli e che ha costretto le loro aziende a riorganizzarsi e a rimboccarsi le maniche: la soluzione a cui giunsero vedeva la “creazione” di organizzazioni basate su una maggiore pressione sui tempi di lavoro (l’economia doveva riprendersi nel minor tempo possibile e andare di pari passo allo sviluppo tecnologico), su uno scarso potere decisionale (i membri di un’azienda, in situazioni problematiche, prendono decisioni sulla base di regole fisse e pensate a priori dall’organizzazione stessa) e su un’incertezza rispetto alla continuità della carriera professionale (a causa, ad esempio, di agevolazioni fiscali a favore dell’azienda per nuove e giovani assunzioni).

Le classi sociali appartenenti alla generazioni delle lotte sindacali arrivano a sentirsi abbandonate perché ignorate e private di quanto erano riuscite ad ottenere, mentre le nuove generazioni si trovano a vivere le ingiustizie come condizione normale per la loro posizione non privilegiata. Si viene così a definire una crescente incertezza verso il futuro, una maggiore disuguaglianza lavorativa e una propensione ad instaurare relazioni dipendenti e distruttive col potere.

Non solo, l’accelerazione della tecnologia che ne seguì, ha comportato una riduzione dei contatti fisici reali oltre che una riduzione e modifica dei rituali tipici “maschili” e “femminili” di integrazione sociale (viene meno il confronto diretto e reale e, quindi, viene limitata la crescita personale). Si riduce considerevolmente la “dieta” emotiva, portando l’individuo ad essere una pedina dei poteri forti, anche al di fuori dell’ambito lavorativo. Il quadro generale si aggrava quando queste condizioni si inseriscono nella vita dei bambini e degli adolescenti: con uno sviluppo già caratterizzato da una propensione all’isolamento, ridurre al virtuale gli spazi di condivisione porta il minore a chiudersi in se stesso e a non esternalizzare i propri problemi o le proprie preoccupazioni.

La velocità e l’insicurezza, poi, non permettono l’assimilazione corretta dei cambiamenti in atto e non ricreano gli ammortizzatori sociali contro lo stress e gli altri disagi psicologici: si riduce il sonno con conseguente riduzione dello sviluppo del cervello (soprattutto nei bambini e negli adolescenti).

Ed è così che si arriva, anche in giovane età, ad avere disturbi mentali intesi sia come “patologie psichiatriche quali ansia, depressione o disturbi bipolari, che come disturbi neurologici, come Alzheimer e demenze”, disturbi che diventano nei Paesi ad alto reddito “la principale causa di perdita di anni di vita per morte prematura e disabilità (17,4%), seguiti dal cancro (15,9%), dalle malattie cardiovascolari (14,8%), dagli infortuni (12.9%) e dalla malattie muscolo-scheletriche (9,2%)”.

Le cause socio-culturali

Gli altri punti su cui riflettere si basano su questi due interrogativi: perché quando si soffre di un dolore fisico contattiamo subito il medico di riferimento, mentre quando la sofferenza è di tipo mentale no?

Cosa ci ferma dal chiedere aiuto?

La salute mentale è un argomento carico di pregiudizi; chi vorrebbe chiedere aiuto teme le critiche delle persone presenti nella sua rete sociale ed il giudizio dello specialista a cui vorrebbe rivolgersi.

Il gruppo dei pari gioca un ruolo importante perché si vive in preda alla paura dell’esclusione, della derisione, dell’incomprensione o, peggio ancora, di essere considerati come pericolosi per se stessi e per gli altri, quando in realtà il silenzio rappresenta il vero pericolo.

Il secondo fattore da considerare è il costo. La persona che già prova vergogna di chiedere aiuto ad uno specialista si troverà ad ideare tutta una serie di stratagemmi per nascondersi e per capire come poter sostenere le costanti spese di una consulenza psicologica.

Non solo, un’aderenza bassa ai trattamenti unita all’insorgere di altre problematiche, peggiorerebbe la condizione del paziente richiedendo tempi di “riabilitazione” più lunghi. Problema già quantificato in un rapporto dell’Harvard School of Public Health e del World Economic Forum (WEF), in cui si stima che “tra il 2011 e il 2030 il costo delle malattie mentali in tutto il mondo sarà di oltre 16 trilioni di dollari in termini di mancata produzione, più di patologie oncologiche, cardiovascolari, respiratorie croniche e del diabete”.

Quali mezzi abbiamo a disposizione in questo mondo digitalizzato per aiutarci?

Il fenomeno del online counseling ha iniziato a prendere piede quando la vita si è fatta più frenetica e le persone hanno acquisito la dote del multitasking, per riuscire a fronteggiare tutti gli impegni della quotidianità. Ha poi ricevuto una spinta naturale dalla pandemia, data la migrazione dei rapporti umani nelle piattaforme di messaggistica e per i problemi psicosociali emersi in seguito.

Il supporto psicologico online presenta numerosi vantaggi: l’anonimato dell’utente permette di superare il disagio derivante dal confronto diretto con lo specialista e agisce come fattore rassicurante; il giudizio esterno non è più un fattore rilevante perché, svolgendosi il percorso mediante un device, l’utente è consapevole del rispetto della sua privacy; permette a qualsiasi tipo di utente di farne uso, qualunque sia la posizione geografica.

In nostro soccorso giunge l’ecosistema delle applicazioni multipiattaforma:

  • AiutoPsicologi è un’applicazione di sostegno momentaneo, si propone come un primo soccorso da utilizzare in situazioni di forte stress, ansia e attacchi di panico fornendo strumenti, tecniche utili per superare i momenti di crisi, e contatti diretti con personale qualificato. Presenta un layout semplice ed intuitivo.
  • Soultrainer è una piattaforma di counseling gratuito che mette in contatto la domanda di supporto con l’offerta professionale, garantendo l’anonimato agli utenti. Questa piattaforma consente di comunicare con gli esperti tramite chat di gruppo tematiche. Il bot presente nella piattaforma spiega brevemente agli utenti le modalità di utilizzo e consigliando di effettuare un test, così da permettere una migliore user experience. E’ presente anche il blog, in cui vengono trattati i più svariati temi dell’ambito psicologico, così da creare anche informazione per gli utenti iscritti e non, e conferire un valore aggiunto non indifferente.
  • Cozily, invece, ricrea un colloquio psicologico a tutto tondo. Composto da psicologi e psicoterapeuti iscritti all’Albo e selezionati tramite attenti criteri di valutazione. Il percorso ha inizio con un periodo di prova dove l’utente ha modo di capire se il servizio può soddisfare le proprie esigenze, in cui conosce le modalità di funzionamento ed ha le prime interazioni conoscitive con lo specialista. Se il giudizio è positivo, al termine della prova, l’utente sottoscrive un abbonamento mensile il cui costo è nettamente inferiore ad un classico percorso di psicoterapia. In particolare “con la sottoscrizione dell’abbonamento si avrà accesso all’anamnesi iniziale, alla programmazione delle attività, all’assegnazione di esercizi graduali, all’utilizzo del diario per registrare i progressi e al supporto continuativo del terapeuta via chat”. La forza dell’applicativo sta proprio nel cercare di rendere l’iter terapeutico il più simile alla reale seduta di terapia psicologica.
  • ItaliaTiAscolto: ecco un’applicazione firmata Bicocca, nata per supportare chiunque si trovi in una situazione di malessere emotivo e forte stress causati dalla grave emergenza sanitaria in cui ci troviamo. L’applicativo è stato inizialmente finanziato dalla Fondazione di Comunità Milano, propone degli incontri virtuali che trattano temi come la gestione delle emozioni, del lutto, della gravidanza, e che danno vita a momenti di condivisione in cui i partecipanti possono condividere le proprie esperienze. Tutti argomenti che sono pensati per crescere e sostenersi.

Se qualcuno volesse intraprendere un percorso di terapia psicologica ma non sapesse a chi rivolgersi?

L’offerta di cui è possibile disporre nell’epoca digitale è aumentata non di poco: basti pensare che è possibile svolgere sessioni da remoto con specialisti provenienti da tutto il territorio nazionale.

Il Servizio Italiano di Psicologia Online mette a disposizione un portale completo con la descrizione di ogni specialista, il tipo di applicazione utilizzata per svolgere le sedute ed il costo. Inoltre è possibile aggiungere dei filtri nella propria ricerca in base al tipo di specializzazione ricercata.

L’introspezione è una risorsa alla portata di tutti: il primo passo da compiere per prendersi cura del proprio stato mentale è informarsi.

Nella rete bisogna prestare attenzione ed attingere da fonti attendibili, costruendosi un bagaglio di conoscenze basilari, diventando così più consapevoli di se stessi.

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Ambiente, società e tecnologia

Nuova vita alle mascherine: no allo spreco, sì al riciclo!

È possibile riutilizzare le mascherine? Se sì, come?

In questo articolo analizzeremo una serie di proposte innovative elaborate da scienziati ed aziende per far fronte all’enorme spreco quotidiano di mascherine monouso, cercando di dare loro una nuova “vita”.

Pandemia e danni ambientali

Se da un lato l’emissione di CO2 è diminuita a seguito dei lockdown emanati dai governi per contrastare la diffusione del Covid-19, dall’altro i danni ambientali hanno subito un incremento soprattutto a causa dell’elevato utilizzo di prodotti usa e getta, la maggior parte di essi di natura plastica. Tra questi, i guanti e le mascherine monouso hanno sicuramente rappresentato i principali dispositivi di protezione di uso comune, gettati quotidianamente in enormi quantità. Si stima che ogni giorno siano 6,8 miliardi le mascherine usa e getta utilizzate in tutto il mondo, per un consumo mensile di circa 129 miliardi: questi dati arrivano da uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology, rivista scientifica bisettimanale pubblicata dalla American Chemical Society. Tali oggetti vengono gettati per strada, finiscono in discarica, o, peggio, ad inquinare i mari e gli oceani.

La proposta di una startup francese

L’azienda francese Plaxtil di Châtellerault ha sviluppato un processo innovativo per riutilizzare le mascherine usa e getta. Costituite da microfibre di polipropilene, un materiale plastico che le rende non biodegradabili, le mascherine vengono trasformate da questa azienda in plastica utilizzabile per creare apri porta (piccoli strumenti utilizzati per aprire la porta senza toccare la maniglia) o visiere protettive contro il virus. Innanzitutto le mascherine vengono raccolte e messe in “quarantena” per 4 giorni dall’azienda Audacie con cui la startup lavora; successivamente passano per una sorta di “frantoio” e poi lungo un tunnel con raggi ultravioletti per essere completamente decontaminate; in ultima fase il materiale prodotto viene mescolato con della resina per diventare più duro. Questa nuova plastica ottenuta può essere utilizzata per realizzare vari tipi di oggetti; attualmente però l’azienda è incentrata nel creare prodotti utili alla lotta contro il coronavirus, tra cui principalmente apri porta e visiere protettive.

Visto l’interesse che tale iniziativa ha suscitato, molte aziende hanno partecipato alla raccolta e grazie ad essa un numero non indifferente di mascherine è stato riutilizzato.

Riciclare le mascherine per costruire strade

Un’altra proposta interessante arriva da un gruppo di ricercatori del Royal Melbourne Institute of Technology (RMIT), il quale ha dimostrato che le mascherine chirurgiche possono essere riciclate ed utilizzate per produrre materiali utili alla costruzione di strade. Il loro studio dimostra che per realizzare un chilometro di una strada a due corsie, potrebbero essere utilizzate circa 3 milioni di mascherine riciclate sminuzzate, impedendo così che costituiscano circa 93 tonnellate di rifiuti che finirebbero in discarica. Si tratta della prima ricerca nel suo genere ed indaga il potenziale per l’utilizzo di mascherine chirurgiche monouso nel settore dell’edilizia civile. Questo nuovo materiale, prodotto con una miscela di mascherine riciclate e macerie di edifici civili lavorate, soddisfa gli standard di sicurezza dell’ingegneria civile: questi DPI (dispositivi di protezione individuale) aiutano infatti ad aggiungere rigidità e resistenza al prodotto finale, progettato per essere utilizzato per strati di base per strade e marciapiedi. Questa iniziativa costituisce inoltre una soluzione di economia circolare per i rifiuti generati dalla pandemia di Covid-19 e quindi una possibile soluzione per fronteggiare le sfide ambientali.

Source: https://www.rmit.edu.au/news/all-news/2021/feb/recycling-face-masks-into-roads-to-tackle-covid-generated-waste

Riciclare sempre!

Qualunque sia il modo scelto per riciclare e riutilizzare le mascherine, è importante l’impegno da parte di ognuno di noi nel rispettare l’ambiente che ci circonda, differenziando i rifiuti in maniera corretta per mantenere pulito il mondo in cui viviamo.

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Economia, StartUp e Fintech

Corsa alla scoperta di Marte: le missioni passate e quelle future

Credits: NASA/JPL-Caltech

Lo scorso 18 febbraio il rover americano della Nasa Perseverance, assieme al drone-elicottero Ingenuity, è atterrato con successo sulla superficie del pianeta Marte: aveva lasciato la Terra lo scorso 30 luglio e per arrivare sul pianeta rosso ha compiuto un viaggio lungo sette mesi percorrendo nello spazio oltre 470 milioni di chilometri.

I “sette minuti di terrore”, durata della discesa e atterraggio del rover, sono stati mostrati dalla Nasa attraverso dei video diffusi sul loro canale Youtube, i quali hanno determinato l’inizio di una lunga serie di immagini, filmati, registrazioni audio e addirittura dirette che ogni giorno documentano i progressi che vengono realizzati su Marte.

La Discesa e atterraggio di Perseverance su Marte

Qual è lo scopo della missione? Cercare segni di eventuali tracce di vita risalenti a quando Marte non era ancora un pianeta tanto arido e inospitale, recuperare campioni geologi per studiare la formazione del suolo del pianeta, i quali verranno recuperati in futuro con altre missioni per portarli sulla Terra, e infine analizzare il clima.

Perseverance dovrà restare su Marte per almeno un anno marziano, che sulla Terra corrisponde a quasi due anni, tempo durante il quale il rover dovrà raccogliere più informazioni possibili.

Grazie agli aggiornamenti diffusi dalla stessa Nasa sui propri canali di comunicazione e sul sito ufficiale dedicato alla missione, è possibile trovare costantemente aggiornamenti e curiosità legate alle scoperte che stanno avvenendo su Marte, tra cui fotografie ad altissima qualità, panoramiche a 360 gradi e addirittura registrazioni audio.

Proprio negli scorsi giorni, esattamente il 5 marzo, Perseverance ha “compiuto i suoi primi passi” su Marte, percorrendo ben 6,5 metri in 33 minuti.

Per mostrare il successo dell’impresa sono state diffuse le fotografie scattate dal rover in cui sono visibili le impronte delle ruote del robot lasciate sul suolo marziano.

Si tratta del primo emozionante viaggio intrapreso su Marte, il primo di molti altri che avremo modo di vedere nei prossimi mesi!

NASA/JPL-Caltech

Il messaggio segreto di Perseverance

In queste settimane ha fatto discutere e divertire un ulteriore curioso aspetto legato al rover americano Perseverance: attraverso la disposizione dei colori del paracadute è stato inserito un messaggio segreto ideato e realizzato da Ian Clark, responsabile del funzionamento dello strumento.

Il messaggio è stato scoperto e decifrato da appassionati di matematica, scienza e Spazio, che grazie all’analisi dei video e delle immagini diffuse dalla Nasa hanno svelato l’esistenza e il significato di questa misteriosa frase.

Di che messaggio si tratta? Le parole inserite in codice sul paracadute compongono una citazione ripresa da un discorso di Theodore Roosvelt del 1899: “Dare mighty things”, che tradotto significa letteralmente “Osa cose straordinarie”.  

Clark ha spiegato la sua decisione al The New York Times, definendola un’opportunità per avere un po’ di divertimento e per dare un significato particolare a uno strumento fondamentale per il successo della missione.

Dato che attraverso le videocamere di Perseverance sarebbe stato possibile vedere perfettamente l’apertura del paracadute, il suo desiderio era di inserire dei colori che lo distinguessero e che avessero un senso. Quale occasione migliore per inserirvi un messaggio speciale?

Naturalmente l’attenzione nel decorare e colorare il tessuto è stata molta, anche perché il rischio di danneggiare il paracadute era molto elevato e il risultato sarebbe stato determinante per il successo della missione, che oltre ad avere un altissimo valore scientifico è costata ben 2,7 miliardi di dollari.

Fortunatamente l’atterraggio del rover sulla superficie del Pianeta è avvenuto con successo e in più oggi su Marte c’è un messaggio da parte dell’uomo che sottolinea ulteriormente la sua presenza anche nello Spazio.

Mars 2020, nome della missione con protagonista Perseverance, non è la prima e unica missione intrapresa dall’uomo per scoprire Marte.

Storiografia delle missioni su Marte

Quello a cui abbiamo assistito in queste settimane non si è trattato affatto del primo tentativo dell’uomo di scoprire Marte.

Al contrario, le missioni che scienziati spaziali di tutto il mondo hanno tentato di portare a termine negli ultimi 60 anni sono state almeno 40 e più della metà sono fallite.

Come confermato anche dall’ESA, gli scienziati parlano addirittura di “demone marziano” per identificare questo fenomeno che provocherebbe il sabotaggio dei veicoli spaziali diretti su Marte.

La prima missione avvenuta con successo risale al novembre del 1964, con il Mariner 4 della Nasa; come da programma furono recuperate le prime 22 immagini del pianeta.

In precedenza, l’Unione Sovietica aveva tentato di compiere delle missioni, fallendo però per 5 volte consecutive.

Sette anni dopo, la sonda russa Mars 2 riuscì ad orbitare intorno a Marte e nello stesso anno anche il primo orbiter della Nasa portò a termine la stessa impresa.

Le prime foto dettagliate della superficie marziana furono scattate a metà degli anni ’70 dalle sonde gemelle Viking, grazie alle quali fu possibile mappare quasi il 97% del suolo del pianeta.

Dopo vent’anni di tentativi falliti la missione Mars Global Surveyor riuscì ad avere successo raggiungendo l’orbita del pianeta nel 1997, ma anche in seguito a questo piccolo traguardo, le missioni successive furono dei fallimenti.

Negli ultimi dieci anni, a partire dalle analisi svolte dal rover americano Curiosity, che come l’attuale Perseverance ebbe moltissima fama, le missioni che si sono susseguite sono state numerose e oltre agli Stati Uniti e alla Russia, anche l’India nel 2013, e l’Unione Europea nel 2016 hanno contribuito e investito nella scoperta di Marte attraverso l’organizzazione di missioni spaziali.

La conquista del pianeta rosso ha da sempre affascinato tutti e grazie alle innovazioni tecnologiche sarà molto più semplice scoprirlo ulteriormente.

Il sogno di Elon Musk di colonizzare Marte

L’imprenditore multimiliardario Elon Musk, attuale uomo più ricco al mondo, da moltissimi anni afferma e dichiara il suo sogno, trasformatosi ormai in obiettivo, di riuscire a portare gli esseri umani su Marte per potervi creare una colonia.

Addirittura, entro il 2050 Musk vorrebbe costruire una città di milioni di abitanti, rendere il viaggio interplanetario accessibile per tutti i terrestri, ed è inoltre convinto che tra soli 6 anni sarà possibile far sbarcare per la prima volta un equipaggio sul pianeta.

“Vorrei morire su Marte. Basta che non sia al momento dell’impatto” è una famosa citazione di Elon Musk in merito al suo desiderio di raggiungere e colonizzare Marte.

Recentemente l’imprenditore ha inoltre fatto discutere e divertire con un suo tweet, nel quale ha affermato: “There will definitely be a MarsCoin!”, “ci sarà sicuramente una MarsCoin!”.

Se fosse un commento ironico o meno non è molto chiaro, sicuramente però, secondo l’imprenditore, l’economia marziana dovrebbe basarsi su una criptovaluta.

Tuttavia, le difficoltà da affrontare per raggiungere questo obiettivo sono moltissime, tanto che per ora ci si può solamente limitare ad approfondire le ricerche sulle caratteristiche di Marte.

Cosa accadrà in futuro

In queste settimane si è parlato e si parla molto di Perseverance, ma la verità è che in questo stesso periodo su Marte sono arrivate anche altre due missioni: la sonda Hope degli Emirati Arabi e il Taiwen-1 della Cina.

La sonda Hope è giunta nell’orbita di Marte lo scorso 9 febbraio, e il suo compito si focalizza sullo studio dell’atmosfera marziana per documentare il clima del pianeta.

L’orbiter Tianwen-1, invece, è entrato nell’orbita di Marte un giorno dopo la sonda araba e ha gli stessi obiettivi di Perseverance, ovvero cercare tracce di vita sul pianeta e studiare la sua atmosfera, i minerali e anche trovare acqua ghiacciata.

La corsa alla scoperta del pianeta rosso sta coinvolgendo sempre di più i paesi più tecnologicamente sviluppati: sono tutti affascinati da Marte e dalla storia e dagli eventi che l’hanno portato a diventare il pianeta apparentemente disabitato e inospitale che conosciamo oggi.

Gli obiettivi che gli scienziati intendono raggiungere sono molti e la strada da percorrere è ancora lunga e complessa.

Il successo delle missioni più recenti ha portato tutti a sperare e a credere con più convinzione che forse, in un futuro non troppo lontano, sarà possibile per l’uomo mettere piede per la prima volta sull’affascinante Marte.